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I ricercatori ripensano il ruolo dell'amiloide nel causare l'Alzheimer

Il termine educato per quello che provoca l'Alzheimer al cervello è "neurodegenerazione". In realtà, è più corretto dire violenza, devastazione indiscriminata.

L'Alzheimer rovina i canali di comunicazione, provoca una infiammazione massiccia e demolisce intere regioni del cervello perchè le cellule una volta sane, avvizziscono e muoiono, seppellendo i ricordi sotto le macerie. Intensificando l'attacco, l'Alzheimer annichilisce gradualmente la mente di una persona, e infine le capacità cognitive che permettono una conversazione con una persona cara, un sorriso o godersi il cibo.

Un paio di decenni fa, alcuni ricercatori pensarono di aver scoperto la causa principale di questa invasione del cervello: gli accumuli pericolosi di una proteina chiamata beta-amiloide. Il ragionamento fu: sbarazziamoci di questi aggregati grandi e appiccicosi e cureremo la malattia. Ma negli ultimi anni, una più profonda comprensione della malattia, insieme ad alcuni test clinici deludenti, ha contestato questa ipotesi e forzato una revisione di questa strategia.

Molti ricercatori sono convinti che l'A-beta è ancora un obiettivo chiave. Una litania di prove schiaccianti dalla genetica, rapporti di patologia ed esperimenti di laboratorio vanno in quella direzione. Eppure, recenti scoperte dimostrano che l'A-beta non è il nemico che si era originariamente ipotizzato. Diversi nuovi studi dimostrano che pezzi più piccoli di A-beta (non le placche di grandi dimensioni che in precedenza erano indicate) sono suscettibili di essere dannose, capaci di distruggere i collegamenti delle cellule nervose. Altri dati provenienti da sofisticate tecniche di imaging possono illuminare come, quando e dove l'A-beta si accumula nel cervello, e come questa formazione possa essere in relazione con la diminuzione dei poteri mentali.

Eppure il fatto che l'A-beta si può accumulare anche in cervelli sani, tra le altre scoperte, ha richiesto a qualche ricercatore dell'Alzheimer di volgere lo sguardo in altra direzione rispetto a quella proteina. Un nuovo modello propone che l'infiammazione, e la conseguente marinata nociva, potrebbe essere la causa centrale della malattia. Altri studi stanno evidenziando i collegamenti tra l'Alzheimer e la curiosa tendenza delle cellule cerebrali, in condizioni di stress, di raddoppiare il proprio materiale genetico.

Mentre la causa dell'Alzheimer rimane vaga, la portata della sua minaccia per il cervello è sempre più evidente. Ogni settimana, nuovi studi informano sui danni sempre più nel dettaglio: i prodotti chimici che portano messaggi tra le cellule nervose diventano MIA (ndt: Missing In Action=scomparsi), il 'tasso di natalità' delle cellule cerebrali precipita, la produzione energetica delle cellule va in tilt, le cellule morte (che diventano rifiuti) cominciano ad accumularsi e nella reazione nascono prodotti chimici nocivi. Infine le cellule cerebrali muoiono.

Non è facile districare questa tela, in cui è quasi impossibile distinguere tra una mente diabolica, un sicario economico o anche uno spettatore innocente. Se così fosse, il problema sarebbe già risolto. "Penso che dobbiamo essere onesti e dire che questa è una condizione incredibilmente complicata, e che sarà molto difficile da affrontare", dice Lennart Mucke, ricercatore dell'Alzheimer della University of California a San Francisco.

Un groviglio

Non è una sorpresa che l'A-beta abbia attirato così tanto l'attenzione di quelli intenti a svelare i misteri dell'Alzheimer. Gli infausti depositi della proteina (insieme ai grovigli di un'altra proteina, chiamata Tau, che ha altresì raccolto una congrua parte di indagine) sono stati quelli che hanno catturato l'attenzione del medico tedesco Alois Alzheimer quando descrisse la malattia per primo, poco più di un secolo fa. Il suo esame post-mortem del cervello di un paziente ha rivelato le placche amiloidi che poi, da allora, sono state associate con la malattia.

Ma molto resta ancora sconosciuto sull'A-beta. Mentre è stato dimostrato che l'A-beta è un frammento della proteina precursore dell'amiloide più grande, che si trova in quasi tutte le cellule nel cervello perfettamente sano, la funzione normale dell'A-beta rimane oscura. Alcuni studi hanno suggerito che la proteina potrebbe aiutare l'attività delle cellule nervose o combattere agenti patogeni pericolosi. Altri suggeriscono che l'A-beta è solo un sottoprodotto cellulare che, nella malattia, assume un nuovo ruolo dannoso.

Nel groviglio dell'Alzheimer, una cosa è chiara: la vecchiaia è il fattore di rischio No. 1, una constatazione spaventosa perchè i primi rappresentanti della marea dei baby boomers [in USA] compie 65 anni quest'anno. La malattia è "evidentemente un'epidemia di proporzioni impressionanti, e ovviamente di grande impatto economico", dice Sam Sisodia, neuroscienziato della University of Chicago. L'Alzheimer è la causa di morte a crescita più veloce nell'ambito delle malattie importanti negli Stati Uniti, e una recente analisi stima che il costo annuale della nazione per la cura dell'Alzheimer nel suo insieme supererà i 1.000 miliardi dollari entro il 2050.

L'Alzheimer è diverso da qualsiasi altro i medici hanno trattato: nella maggior parte dei casi, nessuno sa cosa sia la causa. Non può essere diagnosticata con sicurezza fino a quando un patologo entra nel cervello defunto [ndt: questo non è esatto, ci sono attualmente modi per diagnosticarla con una grande precisione prima della morte]. Non c'è una cura conosciuta o una terapia per la prevenzione, e anche se ci fosse, non sarebbe chiaro quando utilizzare una delle due [ndt: anche questo è inesatto, perchè è dimostrato che un cambiamento radicale nello stile di vita può dilazionare l'insorgenza della malattia di diversi anni]. Molti ritengono che la malattia provoca i suoi danni irreparabili diversi o molti anni prima della comparsa dei sintomi.

"Abbiamo terapie che aiutano con i sintomi, ma non abbiamo trattamenti modificanti la malattia", afferma Paul Aisen della University of California, San Diego School of Medicine, un neurologo che testa medicine potenziali per l'Alzheimer. "E noi non sappiamo quale sia l'obiettivo migliore, e non conosciamo la migliore tempistica."

Ma molti scienziati nel campo hanno la speranza di aver delineato a grandi linee come lavora la malattia, puntando a nuovi obiettivi per le terapie. Una chiave per il completamento del disegno, secondo gli scienziati, è la comprensione della comunicazione delle cellule cerebrali.

Chiacchere del cervello interrotte

Il nuovo lavoro da Gabriel Silva, neuroscienziato della University of California, San Diego, suggerisce che l'A-beta intralcia il flusso di comunicazione neurale in modo inaspettato. In un gruppo di cellule cerebrali chiamate astrociti, una gocciolina della proteina A-beta scatena un segnale che può silenziare le chiacchiere tra le cellule nervose, i principali comunicatori del cervello. Il segnale viaggia come un'onda di atomi di calcio che fluisce attraverso le cellule, dando il via ad un insieme di eventi dannosi che potrebbero risultare nell'interruzione della comunicazione tra le cellule nervose.

"La Beta-amiloide, da sola, è sufficiente a indurre queste cose", dice Silva della scoperta, che è stata pubblicata lo scorso anno su ASN Neuro. Queste onde di calcio sono anche state avvistate nei topi a cui era stata iniettata la forma umana di A-beta per imitare gli alti livelli trovati in alcuni pazienti affetti di Alzheimer. (L'A-beta di solito non si accumula nel cervello dei topi). Non è ancora chiaro se l'A-beta scatena onde di calcio nel cervello umano.

L'A-beta ha probabilmente un percorso più diretto per danneggiare le sinapsi, le giunzioni in cui vengono trasmessi i messaggi (compresi quelli che creano i ricordi) tra le cellule nervose. Uno studio che Mucke e colleghi hanno pubblicato su Nature del 6 gennaio ha mostrato che nei topi, l'abbondanza di A-beta può ordinare l'assassinio di una proteina che è importante per la formazione di ricordi. Normalmente questa proteina, chiamata EphB2, sovrintende l'azione di una molecola di segnalazione che si muove attraverso le sinapsi e contribuisce a creare nuovi ricordi. Negli esperimenti, l'A-beta ha attaccato l'EphB2 e ha contribuito a spostarla nella discarica cellulare. Senza i giusti livelli di EphB2, le molecole che viaggiano sulle sinapsi sono andate in tilt. "I circuiti nervosi non potevano più fare il loro lavoro correttamente, e il topo non poteva imparare o ricordare correttamente," dice Mucke. "L'intero percorso di elaborazione delle informazioni si sfascia."

Mucke e i suoi colleghi hanno invertito i deficit della memoria nei topi che avevano pesanti carichi di A-beta amplificando i livelli della proteina EphB2. Gli studi dimostrano che le persone con Alzheimer hanno meno EphB2 nelle loro cellule cerebrali, quindi, proteggere le proteine dall'A-beta o aumentarne artificialmente i livelli, potrebbe essere un modo per invertire il declino cognitivo, dice Mucke.

L'A-beta può anche colpire un altro bersaglio della sinapsi. Nel cervello dei topi con elevati livelli di A-beta, una proteina chiamata caspasi-3 era più impegnata del solito, una iperattività pericolosa che ha portato alla disintegrazione dei dendriti, le estensioni dei ricettori dei messaggi della cellula nervosa. Ricercatori hanno riportato nel numero di gennaio di Nature Neuroscience che questa combinazione di A-beta / caspasi-3 causa la morte dei dendriti nell'ippocampo, il centro del cervello per la formazione dei ricordi. L'attività di smorzamento del Caspase-3 protegge queste dendriti, suggerendo che, come l'EphB2, anche la caspasi-3 potrebbe essere un buon punto di intervento per proteggere la comunicazione tra le cellule nervose dall'Alzheimer.

Piccola ma pericolosa

Questi assalti alle sinapsi sono stati guidati da forme minuscole di A-beta chiamate oligomeri. Piccoli pezzi solubili di A-beta, gli oligomeri sono blocchi che costruiscono le grandi fibrille insolubili che formano le placche notate per prime da Alois Alzheimer. Gli oligomeri stanno rapidamente guadagnando notorietà come responsabili più probabili delle placche finora studiate.

I dati del gruppo di Caleb Finch, neuroscienziato della University of Southern California a Los Angeles, e il lavoro di altri ricercatori, hanno sollevato il caso che gli oligomeri sono la forma più dannosa di A-beta. "Siamo convinti che le forme oligomeriche, piccoli gruppi da tre a 10, sono più tossiche delle lunghe fibrille", ha detto Finch. Infatti, i topi con una forma di A-beta che non può accumularsi in grandi fibrille mostrano ancora problemi di memoria, ha segnalato l'anno scorso sul Journal of Neuroscience Takami Tomiyama e colleghi della Osaka City University Graduate School of Medicine in Giappone. Questo risultato "aggiunge forza alla nostra teoria", spiega Finch.

In questo momento, non c'è modo di visualizzare questi oligomeri di A-beta in un cervello umano vivente. Le autopsie e i recenti sviluppi nel campo dell'imaging cerebrale consentono ai ricercatori di vedere grandi placche di A-beta, ma è difficile entrare nella placca per stimare le quantità di oligomeri più piccoli. Questo rapporto sfuggente, dice Sam Gandy del Mount Sinai Medical Center di New York City, è una spinta a studiare gli oligomeri nel cervello. "E' davvero difficile ottenere una buona registrazione di quanto c'è là".

Molte simulazioni ed esperimenti in provetta hanno cercato di capire il rapporto oligomero-placca, per esempio, esaminando se c'è una massa critica di oligomeri necessari per la formazione della placca. Ma la "farmacia esplosa" nel cervello confonde la matematica, spiega Finch. Prodotti chimici e sali galleggianti in giro per il cervello possono influenzare il tasso di conversione degli oligomeri di A-beta in placche. "Puoi fare bellissimi modelli di assemblaggi in provetta ... ma è imponderabile quanto rilevante sia alla confusione di piccole molecole nel cervello" dice.

Logistica dell'A-beta

Anche se non è ancora chiaro come misurare i livelli di oligomeri dalle placche, o viceversa, nuove tecniche di imaging del cervello possono aiutare a chiarire un altro problema: individuare chi è a rischio.

Nel 2002, i ricercatori William Klunk e Chester Mathis dell'Università di Pittsburgh, hanno testato un composto, Pittsburgh Compound B o PiB, che si attacca alle placche di A-beta nel cervello e può servire da faro dell'Alzheimer in una immagine di scansione. Anche se relativamente nuovo, il PiB sta guadagnando sempre più credito come una misura affidabile delle placche di A-beta. Ricercatori svedesi hanno segnalato il 1 gennaio in Brain che l'autopsia sul primo paziente di Alzheimer a subire una scansione PiB ha confermato che il tracker ha effettivamente rilevanto le placche di A-beta.

I ricercatori si aspettano dal PiB la risposta a una questione importante: quando inizia la formazione di A-beta? Anche se il PiB è in circolazione da relativamente poco tempo per gli studi a lungo termine, i risultati preliminari suggeriscono che le placche di A-beta appaiono anni prima del declino cognitivo. Un piccolo studio pubblicato nel 2009 negli Archives of Neurology ha scoperto che le persone sane con un segnale PiB forte nel cervello sono più propense a sviluppare demenza lieve entro pochi anni.

Questo intervallo di tempo potenzialmente lungo tra l'inizio della malattia e i sintomi debilitanti corrisponde alle osservazioni cliniche, dice il neurologo Randall Bateman della Washington University School of Medicine a St. Louis. "I sintomi clinici sono visti solo quando i neuroni sono morti", dice. "Sappiamo che le persone non mostrano sintomi fino alla perdita del 60/70 percento dei neuroni in regioni cerebrali chiave".

Aspettare fino a quando una persona esibisce gravi problemi cognitivi e quindi cercare di invertirli è come "lanciare una corda ad un ragazzo che è già saltato fuori dell'edificio", dice il neuroscienziato Charles Glabe della University of California, Irvine, che sta lavorando a una strategia basata su vaccino per diminuire l'A-beta nel cervello. "Funzionerà."

Aisen e colleghi hanno osservato il 18 gennaio su Neurology che l'approccio della medicina moderna nella cura delle malattie cardiache non è quello di trattenere le terapie fino a dopo che il cuore cede. Una volta trovati i trattamenti, cercare di capire esattamente quando l'Alzheimer inizia, contribuirà probabilmente a renderli molto più efficaci.

Eppure è necessario usare prudenza nell'interpretazione di risultati PiB-positivi o PiB-negativi della scansione di un cervello, soprattutto se si considerano le stime che dal 20 al 50 per cento delle persone sane hanno normalmente il cervello pieno zeppo di placche di A-beta. Molti di quei cervelli pienamente funzionanti potrebbero facilmente ottenere la diagnosi di Alzheimer con la scansione PiB. Non è chiaro se, vivendo abbastanza a lungo, quelli con placche di A-beta nel cervello svilupperanno infine l'Alzheimer.

"Se sono cognitivamente normale, dovrebbe importarmi di avere amiloide nel cervello?" ha detto Klunk all'incontro del 2010 della Society for Neuroscience a San Diego. "È irrilevante, o è come la pressione sanguigna, in cui non sei malato ma stai andando in giro con 200 invece di 120? Non va bene". La formazione di A-beta può essere la causa più evidente, comune e anche primaria dell'Alzheimer. Ma per alcune persone, l'A-beta può effettivamente essere irrilevante.

Un nuovo piano di battaglia

Il neurobiologo Karl Herrup della Rutgers University, dice che dobbiamo considerare l'idea dell'Alzheimer senza l'A-beta. Herrup si riferisce ai pazienti che presentano tutti i deficit cognitivi conseguenti l'Alzheimer, ma per i quali gli esperimenti di imaging o successive prove post-mortem non trovano le placche nel cervello. "Quando parlo con i medici a questo proposito, sono tutti d'accordo che questa è una categoria vera e propria, che non è solo un caso limitato".

Anche altre prove non sono coerenti con la teoria attuale, dice Herrup. La presenza di placche di A-beta in soggetti cognitivamente sani solleva dubbi sull'A-beta come l'attore cattivo considerato finora. La stessa conclusione si può trarre dal fatto che l'A-beta, nei topi, non provoca il tipo di morte neuronale massiccia e capillare vista nell'Alzheimer. "Abbiamo riempito le teste di topi con placche, e oligomeri per questo motivo" dice Herrup. "E quello che abbiamo creato è, nella migliore delle ipotesi, una lieve compromissione cognitiva .... Se vai al reparto Alzheimer di ogni istituzione, la maggior parte dei residenti sarebbe entusiasta di tornare al livello di funzione cognitiva nel nostro modello peggiore di topo".

Un altro pezzo particolarmente preoccupante dei dati è che finora, abbassando i livelli di A-beta nel cervello umano, non è migliorata la capacità intellettiva. Uno studio clinico pubblicato su Lancet Neurology l'anno scorso ha dimostrato che un farmaco chiamato bapineuzumab, progettato per guidare l'A-beta fuori del cervello, ha diminuito le placche amiloidi nel cervello, ma non ha migliorato la cognitività dei pazienti nella fase lieve o moderata della malattia. "Il problema principale è che nessuna di queste terapie per abbassare l'amiloide hanno migliorato le funzioni cognitive", ha detto Gandy. "Se ci fosse stato un vantaggio da qualunque cosa che abbassa l'amiloide, è ovvio che metterebbe tutti i dubbi a tacere."

Questo non vuol dire che l'A-beta non ha un ruolo nella malattia. Ma in alcuni casi l'A-beta può non essere la causa. Herrup propone invece un nuovo modello di come la malattia insorge e si diffonde, un modello che toglie l'A-beta dalla ribalta. Prima arriva una lesione, che può essere collegata a un tipo di evento vascolare, come un micro ictus o un trauma cranico lieve subito durante una caduta. Questo evento minore provoca una risposta infiammatoria nel cervello. Questa infiammazione, sostengono Herrup e altri, può essere alla base dell'Alzheimer. L' "ipotesi infiammazione" sostiene che l'insieme negativo di fattori innescati da una lesione, con abbastanza tempo, può causare grandi danni irreversibili alle cellule cerebrali.

Il modello di Herrup declassa l'A-beta, ma non lo esclude completamente. Si scopre che l'A-beta probabilmente peggiora l'infiammazione, e l'infiammazione può stimolare la formazione di più A-beta. "Il problema principale è come quello dell'uovo e la gallina", spiega Finch. "Al momento, non credo che l'aspetto di causa-effetto dell'infiammazione nell'Alzheimer può essere risolto, ma tutti riconoscono che è invischiato nel processo in modo fondamentale".

Herrup propone che l'infiammazione estesa innesca un cambiamento permanente nelle cellule cerebrali, un punto di non ritorno. "Alle cellule non interessa più sapere se c'è amiloide nel loro ambiente, o se c'è l'infiammazione nel loro ambiente," dice. "Hanno attraversato il Rubicone; dopo questo punto, nessun intervento o terapia potrebbe aiutare".

L'intuizione Herrup è che questo cambiamento potrebbe essere collegato a un fatto curioso sui neuroni: quando sono sotto stress, duplicano il loro materiale genetico. Di solito la maggior parte delle cellule del corpo fanno questo in preparazione della replica di tutta la cella, e la nuova copia della cella ottiene il set supplementare di DNA. Ma invece di dividersi, i neuroni sotto stress semplicemente continuano con il doppio della quantità di DNA. Una volta che il DNA è raddoppiato, non c'è modo per la cellula cerebrale di sbarazzarsene, senza divisione. E i neuroni non si dividono. "Temo che questa sia stata una di quelle osservazioni che nessuno può adattare a qualche teoria, così i miei intelocutori sorridono sempre e dicono: 'Bene, questo è molto interessante,' e tornano a quello che stavano facendo prima", dice Herrup.

I ricercatori non sanno ancora se questo extra DNA è nocivo, ma è chiaro che la duplicazione impedita avviene di più nelle cellule cerebrali che combattono l'Alzheimer. Ricercatori tedeschi hanno suggerito in un articolo pubblicato nel mese di luglio in American Journal of Pathology che nelle persone con la malattia, non solo le cellule cerebrali hanno più probabilità di avere copie extra del DNA, ma le cellule hanno anche maggiore rischio di morte.

Il legame tra DNA extra e i neuroni destinati alla distruzione, anche se intrigante, è preliminare. Potrebbe rivelarsi una'altra falsa pista nella ricerca della causa ultima dell'Alzheimer. Rimane difficile l'assegnazione precisa dei ruoli per l'intero cast di personaggi al lavoro nell'Alzheimer e la ricerca dei modi per contrastarli.

"Quanto siamo vicini alla comprensione dell'Alzheimer? Questa è la stessa domanda che abbiamo fatto 10 anni fa" dice Sisodia. "E ci faremo la stessa domanda tra 10 anni."

 


Pubblicato su ScienceNews.org il 12 febbraio 2011

Traduzione di Traduzione di Franco Pellizzari. 
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Questo articolo non si propone come terapia o dieta; per qualsiasi modifica della propria cura o regime alimentare si consiglia di rivolgersi a un medico o dietologo.
Nota: L'articolo potrebbe riferire risultati di ricerche mediche, psicologiche, scientifiche o sportive che riflettono lo stato delle conoscenze raggiunte fino alla data della loro pubblicazione.


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