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3D neuroinflammation

La nostra conoscenza del morbo di Alzheimer (MA) è cresciuta rapidamente negli ultimi decenni, ma si è dimostrato difficile tradurre le scoperte fondamentali sulla malattia in nuovi trattamenti. Ora dei ricercatori del California National Primate Research Center dell'Università della California di Davis, hanno sviluppato un modello delle prime fasi del MA con macachi rhesus.


Il macaco modello, come da studio pubblicato il 18 marzo su Alzheimer's & Dementia: il Journal of the Alzheimer's Association potrebbe consentire di testare meglio nuovi trattamenti. Il modello è stato sviluppato dal laboratorio del prof. John Morrison al CNPRC, in collaborazione con il prof. Jeffrey Krodower della Rush University e Paramita Chakrabarty, assistente prof.ssa dell'Università della Florida.


Si ritiene che il MA sia causato da una errata piegatura delle proteine ​​tau e amiloide, che si diffondono nel cervello, portando all'infiammazione e alla morte cellulare. La proteina tau si trova comunemente nei neuroni del cervello e del sistema nervoso centrale, ma non altrove. I ricercatori pensano che passino decenni tra l'inizio silenzioso della malattia e i primi segni di declino cognitivo. Capire cosa succede in questi anni potrebbe essere la chiave per prevenire o invertire i sintomi del MA.


Ma è difficile delineare strategie terapeutiche senza un potente modello animale che assomiglia molto alla condizione umana, ha detto Morrison. Molte ricerche si sono concentrate sui topi transgenici che esprimono una versione umana delle proteine ​​amiloide o tau, ma questi studi si sono dimostrati difficili da tradurre in nuovi trattamenti.

 

Servono nuovi modelli traslazionali

"Gli esseri umani e le scimmie hanno due forme della proteina tau nel cervello, ma i roditori ne hanno solo una", ha detto Danielle Beckman, ricercatrice post-dottorato del CNPRC e prima autrice dello studio. "Pensiamo che il macaco sia un modello migliore, perché esprime nel cervello le stesse versioni di tau degli umani".


I topi mancano anche di alcune aree della neocorteccia, come quella prefrontale, una regione del cervello umano che è molto vulnerabile al MA. La corteccia prefrontale è presente nei macachi rhesus ed è criticamente importante per le funzioni cognitive degli umani e delle scimmie. C'è assoluto bisogno di modelli animali nuovi e migliori per il MA, che dovrebbero stare tra i topi modello e le sperimentazioni cliniche umane, ha detto la Beckman.


La Chakrabarty e i suoi colleghi hanno creato versioni del gene umano tau con mutazioni che causano l'errato ripiegamento, avvolte in una particella di virus. Questi vettori sono stati iniettati in macachi rhesus, in una regione del cervello chiamata corteccia entorinale, che è molto vulnerabile al MA.


Entro tre mesi, hanno visto che le proteine ​​tau mal ripiegate si erano diffuse in altre parti del cervello dell'animale. Hanno scoperto un ripiegamento errato sia nelle proteine tau mutanti umane introdotte che nelle proteine ​​tau proprie della scimmia.


"Il modello di diffusione ha dimostrato inequivocabilmente che la patologia tau ha seguito le connessioni precise della corteccia entorinale e che la semina della tau patologica è passata da una regione alla successiva attraverso le connessioni sinaptiche", ha detto Morrison. "Questa capacità di diffondersi attraverso i circuiti cerebrali provoca il danno alle aree corticali responsabili della cognizione di livello superiore piuttosto distanti dalla corteccia entorinale".


La stessa squadra in precedenza aveva realizzato nei macachi la diffusione di proteine ​​amiloidi mal ripiegate, una delle prime fasi del MA, iniettando brevi pezzi di amiloide difettosa. Il nuovo modello di proteina tau probabilmente rappresenta una fase intermedia della malattia, ha detto la Beckman: "Pensiamo che questo rappresenti una fase più degenerativa, ma prima che si verifichi la morte cellulare diffusa".


I ricercatori hanno pianificato di verificare se i cambiamenti comportamentali paragonabili al MA umano si sviluppano nel modello di macaco rhesus. In tal caso, potrebbe essere usato per testare terapie che impediscono il ripiegamento errato o l'infiammazione.


"Stiamo lavorando da 4 anni per sviluppare questi modelli", ha detto Morrison. "Non penso che si possa fare senza una grande squadra collaborativa e le ampie risorse di un centro nazionale di ricerca sui primati".

 

 

 


Fonte: Andy Fell in University of California - Davis (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: Danielle Beckman, Paramita Chakrabarty, Sean Ott, Amanda Dao, Eric Zhou, William Janssen, Kristine Donis‐Cox, Scott Muller, Jeffrey Kordower, John Morrison. A novel tau‐based rhesus monkey model of Alzheimer's pathogenesis. Alzheimer's & Dementia, 2021, DOI

Copyright: Tutti i diritti di testi o marchi inclusi nell'articolo sono riservati ai rispettivi proprietari.

Liberatoria: Questo articolo non propone terapie o diete; per qualsiasi modifica della propria cura o regime alimentare si consiglia di rivolgersi a un medico o dietologo. Il contenuto non rappresenta necessariamente l'opinione dell'Associazione Alzheimer OdV di Riese Pio X ma solo quella dell'autore citato come "Fonte". I siti terzi raggiungibili da eventuali collegamenti contenuti nell'articolo e/o dagli annunci pubblicitari sono completamente estranei all'Associazione, il loro accesso e uso è a discrezione dell'utente. Liberatoria completa qui.

Nota: L'articolo potrebbe riferire risultati di ricerche mediche, psicologiche, scientifiche o sportive che riflettono lo stato delle conoscenze raggiunte fino alla data della loro pubblicazione.


 

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Pubblicato in (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Copyright: Tutti i diritti di eventuali testi o marchi citati nell'articolo sono riservati ai rispettivi proprietari.

Liberatoria: Questo articolo non propone terapie o diete; per qualsiasi modifica della propria cura o regime alimentare si consiglia di rivolgersi a un medico o dietologo. Il contenuto non dipende da, nè impegna l'Associazione Alzheimer onlus di Riese Pio X. I siti terzi raggiungibili da eventuali links contenuti nell'articolo e/o dagli annunci pubblicitari sono completamente estranei all'Associazione, il loro accesso e uso è a discrezione dell'utente. Liberatoria completa qui.

Nota: L'articolo potrebbe riferire risultati di ricerche mediche, psicologiche, scientifiche o sportive che riflettono lo stato delle conoscenze raggiunte fino alla data della loro pubblicazione.


 

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Fonte: Andy Fell in University of California - Davis (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

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Scienziati del gruppo di epidemiologia nutrizionale dell'Università di Leeds hanno analizzato i dati di 500.000 persone, scoprendo che consumare una porzione di 25g di carne lavorata al giorno, equivalente a una fetta sottile di pancetta, si è associato a un aumento del 44% del rischio di sviluppo della malattia.


Ma i loro risultati mostrano anche che mangiare carne rossa non trasformata, come carne di manzo, di maiale o di vitello, potrebbe essere protettivo, poiché le persone che ne hanno consumato 50g al giorno avevano un rischio ridotto del 19% di sviluppare la demenza.


I ricercatori volevano capire se c'è un legame tra il consumo di carne e lo sviluppo della demenza, una malattia che colpisce dal 5% all'8% degli over-60 anni in tutto il mondo. I loro risultati sono stati pubblicati sull'American Journal of Clinical Nutrition.


La prima autrice Huifeng Zhang, dottoranda della Facoltà di Scienze dell'Alimentazione e della Nutrizione, ha dichiarato:

"La prevalenza della demenza è in aumento in tutto il mondo e la dieta come fattore modificabile potrebbe avere un ruolo. La nostra ricerca si aggiunge al crescente corpo di evidenze che collega il consumo di carne trasformata a un aumento del rischio di varie malattie non trasmissibili".


La ricerca, supervisionata dalle prof.sse Janet Cade e Laura Hardie, entrambe della Leeds, ha esaminato dati forniti dalla UK Biobank, una banca dati contenente informazioni genetiche e sanitarie approfondite di mezzo milione di partecipanti da 40 a 69 anni di età, per indagare sulle associazioni tra i diversi tipi di carne e il rischio di sviluppare la demenza.


I dati includevano la frequenza di consumo di diversi tipi di carne, con sei opzioni, dal mai a una o più volte al giorno, nel periodo 2006-2010. Lo studio non ha valutato specificamente l'impatto di una dieta vegetariana o vegana sul rischio di demenza, ma includeva dati di persone che hanno detto di non mangiare carne rossa.


Tra i partecipanti, sono emersi 2.896 casi di demenza sugli 8 anni analizzati. Queste persone erano in genere più anziane, più disagiate economicamente, meno istruite, con più probabilità di fumare, meno attive fisicamente, con più probabilità di avere una storia di ictus e di demenza familiare, e più probabilità di essere portatrici di un gene altamente associato alla demenza.


La diagnosi di demenza ha interessato più uomini che donne nella popolazione dello studio. Alcune persone avevano da tre a sei volte più probabilità di sviluppare la demenza a causa di fattori genetici ben consolidati, ma i risultati suggeriscono che i rischi di mangiare carne lavorata erano gli stessi, che la persona fosse o no geneticamente predisposta allo sviluppo della malattia.


Coloro che hanno consumato maggiori quantità di carne lavorata avevano più probabilità di essere maschi, meno istruiti, fumatori, sovrappeso o obesi, con consumo inferiore di verdure e frutta, e avevano una maggiore assunzione di energia, proteine ​​e grassi (inclusi i grassi saturi).


Il consumo di carne era già stato associato al rischio di demenza, ma questo è ritenuto il primo studio su larga scala di partecipanti nel tempo a esaminare un legame tra specifici tipi e quantità di carne e il rischio di sviluppare la malattia.


Ci sono circa 50 milioni di casi di demenza a livello globale, con circa 10 milioni di nuovi casi diagnosticati ogni anno. Il morbo di Alzheimer costituisce il 50%-70% dei casi e la demenza vascolare intorno al 25%. Il suo sviluppo e progressione sono associati sia a fattori genetici che ambientali, compresa la dieta e lo stile di vita.


La Zhang ha detto:

"È necessaria un'ulteriore conferma, ma la direzione dell'effetto è legata alle attuali linee guida alimentari salutari che suggeriscono che l'assunzione limitata di carne rossa non trasformata potrebbe dare benefici alla salute".


La prof.ssa Cade ha detto:

"Tutto ciò che possiamo fare per esplorare potenziali fattori di rischio per la demenza può aiutarci a ridurre i tassi di questa condizione debilitante. Questa analisi è un primo passo per capire se ciò che mangiamo potrebbe influenzare quel rischio".

 

 

 


Fonte: University of Leeds (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: Huifeng Zhang, Darren Greenwood, Harvey Risch, David Bunce, Laura Hardie, Janet Cade. Meat consumption and risk of incident dementia: cohort study of 493,888 UK Biobank participants. American Journal of Clinical Nutrition, 22 Mar 2021, DOI

Copyright: Tutti i diritti di testi o marchi inclusi nell'articolo sono riservati ai rispettivi proprietari.

Liberatoria: Questo articolo non propone terapie o diete; per qualsiasi modifica della propria cura o regime alimentare si consiglia di rivolgersi a un medico o dietologo. Il contenuto non rappresenta necessariamente l'opinione dell'Associazione Alzheimer OdV di Riese Pio X ma solo quella dell'autore citato come "Fonte". I siti terzi raggiungibili da eventuali collegamenti contenuti nell'articolo e/o dagli annunci pubblicitari sono completamente estranei all'Associazione, il loro accesso e uso è a discrezione dell'utente. Liberatoria completa qui.

Nota: L'articolo potrebbe riferire risultati di ricerche mediche, psicologiche, scientifiche o sportive che riflettono lo stato delle conoscenze raggiunte fino alla data della loro pubblicazione.


 

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Fonte:

Pubblicato in (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.

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Ma i loro risultati mostrano anche che mangiare carne rossa non trasformata, come carne di manzo, di maiale o di vitello, potrebbe essere protettivo, poiché le persone che ne hanno consumato 50g al giorno avevano un rischio ridotto del 19% di sviluppare la demenza.


I ricercatori volevano capire se c'è un legame tra il consumo di carne e lo sviluppo della demenza, una malattia che colpisce dal 5% all'8% degli over-60 anni in tutto il mondo. I loro risultati sono stati pubblicati sull'American Journal of Clinical Nutrition.


La prima autrice Huifeng Zhang, dottoranda della Facoltà di Scienze dell'Alimentazione e della Nutrizione, ha dichiarato:

"La prevalenza della demenza è in aumento in tutto il mondo e la dieta come fattore modificabile potrebbe avere un ruolo. La nostra ricerca si aggiunge al crescente corpo di evidenze che collega il consumo di carne trasformata a un aumento del rischio di varie malattie non trasmissibili".


La ricerca, supervisionata dalle prof.sse Janet Cade e Laura Hardie, entrambe della Leeds, ha esaminato dati forniti dalla UK Biobank, una banca dati contenente informazioni genetiche e sanitarie approfondite di mezzo milione di partecipanti da 40 a 69 anni di età, per indagare sulle associazioni tra i diversi tipi di carne e il rischio di sviluppare la demenza.


I dati includevano la frequenza di consumo di diversi tipi di carne, con sei opzioni, dal mai a una o più volte al giorno, nel periodo 2006-2010. Lo studio non ha valutato specificamente l'impatto di una dieta vegetariana o vegana sul rischio di demenza, ma includeva dati di persone che hanno detto di non mangiare carne rossa.


Tra i partecipanti, sono emersi 2.896 casi di demenza sugli 8 anni analizzati. Queste persone erano in genere più anziane, più disagiate economicamente, meno istruite, con più probabilità di fumare, meno attive fisicamente, con più probabilità di avere una storia di ictus e di demenza familiare, e più probabilità di essere portatrici di un gene altamente associato alla demenza.


La diagnosi di demenza ha interessato più uomini che donne nella popolazione dello studio. Alcune persone avevano da tre a sei volte più probabilità di sviluppare la demenza a causa di fattori genetici ben consolidati, ma i risultati suggeriscono che i rischi di mangiare carne lavorata erano gli stessi, che la persona fosse o no geneticamente predisposta allo sviluppo della malattia.


Coloro che hanno consumato maggiori quantità di carne lavorata avevano più probabilità di essere maschi, meno istruiti, fumatori, sovrappeso o obesi, con consumo inferiore di verdure e frutta, e avevano una maggiore assunzione di energia, proteine ​​e grassi (inclusi i grassi saturi).


Il consumo di carne era già stato associato al rischio di demenza, ma questo è ritenuto il primo studio su larga scala di partecipanti nel tempo a esaminare un legame tra specifici tipi e quantità di carne e il rischio di sviluppare la malattia.


Ci sono circa 50 milioni di casi di demenza a livello globale, con circa 10 milioni di nuovi casi diagnosticati ogni anno. Il morbo di Alzheimer costituisce il 50%-70% dei casi e la demenza vascolare intorno al 25%. Il suo sviluppo e progressione sono associati sia a fattori genetici che ambientali, compresa la dieta e lo stile di vita.


La Zhang ha detto:

"È necessaria un'ulteriore conferma, ma la direzione dell'effetto è legata alle attuali linee guida alimentari salutari che suggeriscono che l'assunzione limitata di carne rossa non trasformata potrebbe dare benefici alla salute".


La prof.ssa Cade ha detto:

"Tutto ciò che possiamo fare per esplorare potenziali fattori di rischio per la demenza può aiutarci a ridurre i tassi di questa condizione debilitante. Questa analisi è un primo passo per capire se ciò che mangiamo potrebbe influenzare quel rischio".

 

 

 


Fonte: University of Leeds (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: Huifeng Zhang, Darren Greenwood, Harvey Risch, David Bunce, Laura Hardie, Janet Cade. Meat consumption and risk of incident dementia: cohort study of 493,888 UK Biobank participants. American Journal of Clinical Nutrition, 22 Mar 2021, DOI

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Una grande percentuale dei decessi per demenza in Inghilterra e nel Galles può essere dovuta alla privazione socioeconomica, secondo la nuova ricerca guidata dalla Queen Mary University di Londra. Il team ha anche scoperto che la privazione socioeconomica era associata a un'età più giovane alla morte con demenza e a un minore accesso a una diagnosi accurata.


La demenza è la causa principale di morte in Inghilterra e Galles, anche durante la pandemia Covid, ed è l'unica malattia nelle prime dieci cause di morte senza un trattamento efficace.


La ricerca, pubblicata sul Journal of Alzheimer’s Disease, ha esaminato le statistiche ufficiali della mortalità in Inghilterra e in Galles, e ha scoperto che nel 2017 almeno 14.837 morti per demenza erano attribuibili alla privazione, equivalenti al 21,5% di tutte le morti per demenza in quell'anno. Il team ha anche scoperto che l'effetto di questa associazione sembra aumentare nel tempo.


L'autore senior, il dott. Charles Marshall del Queen Mary's Wolfson Institute, il cui lavoro è finanziato dalla Barts Charity, ha dichiarato:

"Capire come potremmo prevenire le morti per demenza è particolarmente importante. La disuguaglianza socioeconomica persistente e allargata potrebbe avere un impatto non riconosciuto sulla salute del cervello. Affrontare questa disuguaglianza potrebbe essere una strategia importante per aiutare ad arginare la marea crescente della demenza".


Sono stati ipotizzati vari fattori che mediano la relazione tra demenza e privazione socioeconomica, che comprendono l'istruzione, la dieta, i fattori di rischio vascolare, lo stress e l'accesso all'assistenza sanitaria.


È probabile che la qualità più scarsa della diagnosi nei pazienti più disagiati significhi che sono svantaggiati in termini di prognosi, consulenza, pianificazione di cure future, accesso a trattamenti sintomatici appropriati e opportunità di partecipare alle ricerche.


I ricercatori affermano che, sebbene non sia stato ancora stabilita una relazione causale diretta tra lo status socioeconomico e la demenza, la privazione potrebbe essere un obiettivo importante negli approcci sanitari pubblici volti a ridurre il peso della demenza nella popolazione.


Lo studio ha limitazioni in quanto è osservazionale, il che significa che non può confermare un legame causale tra privazione e demenza, e mancano dettagli su specifici sottotipi di demenza all'interno dei dati ONS, che possono portare a un accertamento incompleto dei casi di demenza.

 

 

 


Fonte: Queen Mary University of London (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: Mark Jitlal, Guru Amirthalingam, Tasvee Karania, Eve Parry, Aidan Neligan, Ruth Dobson, Alastair Noyce, Charles Marshall. The influence of socioeconomic deprivation on dementia mortality, age at death and quality of diagnosis: a nationwide death records study in England and Wales 2001-2017. Journal of Alzheimer’s Disease, 2021, DOI

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Liberatoria: Questo articolo non propone terapie o diete; per qualsiasi modifica della propria cura o regime alimentare si consiglia di rivolgersi a un medico o dietologo. Il contenuto non rappresenta necessariamente l'opinione dell'Associazione Alzheimer OdV di Riese Pio X ma solo quella dell'autore citato come "Fonte". I siti terzi raggiungibili da eventuali collegamenti contenuti nell'articolo e/o dagli annunci pubblicitari sono completamente estranei all'Associazione, il loro accesso e uso è a discrezione dell'utente. Liberatoria completa qui.

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La demenza è la causa principale di morte in Inghilterra e Galles, anche durante la pandemia Covid, ed è l'unica malattia nelle prime dieci cause di morte senza un trattamento efficace.


La ricerca, pubblicata sul Journal of Alzheimer’s Disease, ha esaminato le statistiche ufficiali della mortalità in Inghilterra e in Galles, e ha scoperto che nel 2017 almeno 14.837 morti per demenza erano attribuibili alla privazione, equivalenti al 21,5% di tutte le morti per demenza in quell'anno. Il team ha anche scoperto che l'effetto di questa associazione sembra aumentare nel tempo.


L'autore senior, il dott. Charles Marshall del Queen Mary's Wolfson Institute, il cui lavoro è finanziato dalla Barts Charity, ha dichiarato:

"Capire come potremmo prevenire le morti per demenza è particolarmente importante. La disuguaglianza socioeconomica persistente e allargata potrebbe avere un impatto non riconosciuto sulla salute del cervello. Affrontare questa disuguaglianza potrebbe essere una strategia importante per aiutare ad arginare la marea crescente della demenza".


Sono stati ipotizzati vari fattori che mediano la relazione tra demenza e privazione socioeconomica, che comprendono l'istruzione, la dieta, i fattori di rischio vascolare, lo stress e l'accesso all'assistenza sanitaria.


È probabile che la qualità più scarsa della diagnosi nei pazienti più disagiati significhi che sono svantaggiati in termini di prognosi, consulenza, pianificazione di cure future, accesso a trattamenti sintomatici appropriati e opportunità di partecipare alle ricerche.


I ricercatori affermano che, sebbene non sia stato ancora stabilita una relazione causale diretta tra lo status socioeconomico e la demenza, la privazione potrebbe essere un obiettivo importante negli approcci sanitari pubblici volti a ridurre il peso della demenza nella popolazione.


Lo studio ha limitazioni in quanto è osservazionale, il che significa che non può confermare un legame causale tra privazione e demenza, e mancano dettagli su specifici sottotipi di demenza all'interno dei dati ONS, che possono portare a un accertamento incompleto dei casi di demenza.

 

 

 


Fonte: Queen Mary University of London (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: Mark Jitlal, Guru Amirthalingam, Tasvee Karania, Eve Parry, Aidan Neligan, Ruth Dobson, Alastair Noyce, Charles Marshall. The influence of socioeconomic deprivation on dementia mortality, age at death and quality of diagnosis: a nationwide death records study in England and Wales 2001-2017. Journal of Alzheimer’s Disease, 2021, DOI

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covid

Parlando di persone con disabilità di apprendimento e Covid-19, le statistiche sono schiaccianti. Nel Regno Unito, le persone con disabilità di apprendimento hanno una probabilità almeno 4 volte più alta di morire dalla malattia rispetto alla popolazione generale, secondo una relazione governativa di novembre 2020, con un tasso di mortalità che secondo la stima dei ricercatori potrebbe in realtà essere 6 volte maggiore.


Questa cifra complessiva nasconde ancora maggiori disparità tra i diversi gruppi di età. Durante il primo blocco, il tasso di mortalità per le persone con disabilità dell'apprendimento tra i 18 e i 30 anni era 30 volte superiore a quello dei loro coetanei non disabili nell'apprendimento. Ancor più preoccupante: un rapporto della no-profit Mencap ha scoperto che l'80% di tutte le morti delle persone con disabilità dell'apprendimento nell'ultimo anno era correlato al Coronavirus.


Il rapporto del governo suggerisce alcune possibili ragioni per questo. Cita alcune delle sfide intrinseche che vengono dal vivere con una disabilità di apprendimento, tipo avere un rischio più elevato di malattie come il diabete, avere più probabilità di vivere in gruppo o in casa di cura, trovare difficile il distanziamento sociale vivendo in comunità e dipendere dall'assistenza a domicilio per il supporto quotidiano.


Un altro piccolo studio ha scoperto che i rischi sembravano essere più elevati per quelli con disabilità di apprendimento da moderata a profonda, e con altre condizioni che comprendono l'epilessia, la salute mentale, la sindrome di down e la demenza.


Ma è utile la cautela dall'affidarsi a semplici spiegazioni mediche, che potrebbero inavvertitamente perpetuare gli stereotipi su questo gruppo: che sono ammalati, vulnerabili e bisognosi di 'cura'. Invece, abbiamo bisogno di una discussione più ampia sulle cause di questa mortale disuguaglianza.


Dobbiamo quindi prendere in considerazione il modo in cui la società vede le persone che non rientrano nella stretta visuale di 'normalità', che definisce ciò che deve essere umano come esclusivamente senza disabilità. Questo modo di pensare rende più difficile creare una società che progetta i bisogni, le scelte e i diritti di tutti i suoi membri.


In tutta la pandemia, riteniamo che ci sia stata una significativa mancanza di considerazione dei bisogni delle persone con disabilità dell'apprendimento. Questo è stato chiarito nel caso della sorella di Jo Whiley, Frances. A febbraio, Jo, presentatrice della BBC, si è chiesta pubblicamente perché era stato offerto un vaccino Covid a lei e no a sua sorella disabile Frances. In seguito, Frances ha contratto il Covid-19 e ha trascorso diversi giorni in ospedale dove è diventata molto malata.


Mentre Frances era in ospedale, Jo è stata costretta a rivolgersi a Twitter per chiedere aiuto su come incoraggiare sua sorella a tenere la maschera di ossigeno. È scioccante che questo tipo di problemi stesse sorgendo ancora un anno nella pandemia, dato l'alto numero di persone con difficoltà di apprendimento che avevano contratto il Covid e che avevano quindi avuto bisogno di ossigeno come qualsiasi altro paziente.


Frances ora è stata fortunatamente dimessa dall'ospedale e la difesa pubblica di Jo, insieme alle preoccupazioni sollevate dai genitori e dalle campagne di vari gruppi, ha portato il governo inglese ad alzare la priorità di vaccinazione per tutte le persone che si trovano su un registro dei medici di base per una disabilità dell'apprendimento.

 

Una storia di disuguaglianza sanitaria

Anche se siamo in circostanze eccezionali a causa del Covid-19, le preoccupazioni sulla qualità della cura per le persone con disabilità dell'apprendimento non sono nuove, né lo sono gli alti tassi di mortalità in questo gruppo.


Nel 2019, il NHS (National Health System, servizio sanitario nazionale in GB) ha pubblicato una relazione che ha esaminato la morte di oltre 1.000 persone con disabilità dell'apprendimento da 2016 al 2018. Il rapporto ha rilevato che l'età media della morte per gli uomini con una disabilità di apprendimento era 60 anni rispetto agli 83 degli uomini della popolazione generale. L'età media della morte per le donne con una disabilità di apprendimento era di 59 anni rispetto agli 86.


Nel 2007, un rapporto Mencap aveva sollevato preoccupazioni sugli atteggiamenti discriminatori alle persone con disabilità dell'apprendimento durante l'uso dei servizi sanitari. Nel 2012, Mencap ha documentato ulteriori problemi significativi sul numero sproporzionato di decessi dei pazienti con disabilità dell'apprendimento negli ospedali. Sosteneva che il NHS stava continuando a ignorare questi pazienti in termini di cure di base, cattiva comunicazione, diagnosi ritardata e scarsa adesione ai principi che sottendono la legge sulla capacità mentale.


Tutto ciò mostra una distinta mancanza di progressi e che le morti precoci di persone con disabilità dell'apprendimento sono spesso inutili ed evitabili. Questa è una possibile spiegazione che dovrebbe essere considerata quando si chiede perché hanno un tasso di mortalità Covid più alto.


Anche se le campagne guidate da celebrità possono far accadere il cambiamento, dobbiamo fare una differenza a lungo termine. Ciò include un impegno per ascoltare le persone con disabilità dell'apprendimento, vedere la loro vita come quella di qualsiasi altro cittadino, e lavorare in modo collaborativo per affrontare l'esclusione sociale, la scarsa fornitura di cure e la continua emarginazione oltre la pandemia.

 

 

 


Fonte: Jo Finch (vice direttrice del Centre for Social Work Research) e Janet Hoskin (docente senior Facoltà Istruzione e Comunità), University of East London

Pubblicato su The Conversation (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

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Fonte:

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covid

Parlando di persone con disabilità di apprendimento e Covid-19, le statistiche sono schiaccianti. Nel Regno Unito, le persone con disabilità di apprendimento hanno una probabilità almeno 4 volte più alta di morire dalla malattia rispetto alla popolazione generale, secondo una relazione governativa di novembre 2020, con un tasso di mortalità che secondo la stima dei ricercatori potrebbe in realtà essere 6 volte maggiore.


Questa cifra complessiva nasconde ancora maggiori disparità tra i diversi gruppi di età. Durante il primo blocco, il tasso di mortalità per le persone con disabilità dell'apprendimento tra i 18 e i 30 anni era 30 volte superiore a quello dei loro coetanei non disabili nell'apprendimento. Ancor più preoccupante: un rapporto della no-profit Mencap ha scoperto che l'80% di tutte le morti delle persone con disabilità dell'apprendimento nell'ultimo anno era correlato al Coronavirus.


Il rapporto del governo suggerisce alcune possibili ragioni per questo. Cita alcune delle sfide intrinseche che vengono dal vivere con una disabilità di apprendimento, tipo avere un rischio più elevato di malattie come il diabete, avere più probabilità di vivere in gruppo o in casa di cura, trovare difficile il distanziamento sociale vivendo in comunità e dipendere dall'assistenza a domicilio per il supporto quotidiano.


Un altro piccolo studio ha scoperto che i rischi sembravano essere più elevati per quelli con disabilità di apprendimento da moderata a profonda, e con altre condizioni che comprendono l'epilessia, la salute mentale, la sindrome di down e la demenza.


Ma è utile la cautela dall'affidarsi a semplici spiegazioni mediche, che potrebbero inavvertitamente perpetuare gli stereotipi su questo gruppo: che sono ammalati, vulnerabili e bisognosi di 'cura'. Invece, abbiamo bisogno di una discussione più ampia sulle cause di questa mortale disuguaglianza.


Dobbiamo quindi prendere in considerazione il modo in cui la società vede le persone che non rientrano nella stretta visuale di 'normalità', che definisce ciò che deve essere umano come esclusivamente senza disabilità. Questo modo di pensare rende più difficile creare una società che progetta i bisogni, le scelte e i diritti di tutti i suoi membri.


In tutta la pandemia, riteniamo che ci sia stata una significativa mancanza di considerazione dei bisogni delle persone con disabilità dell'apprendimento. Questo è stato chiarito nel caso della sorella di Jo Whiley, Frances. A febbraio, Jo, presentatrice della BBC, si è chiesta pubblicamente perché era stato offerto un vaccino Covid a lei e no a sua sorella disabile Frances. In seguito, Frances ha contratto il Covid-19 e ha trascorso diversi giorni in ospedale dove è diventata molto malata.


Mentre Frances era in ospedale, Jo è stata costretta a rivolgersi a Twitter per chiedere aiuto su come incoraggiare sua sorella a tenere la maschera di ossigeno. È scioccante che questo tipo di problemi stesse sorgendo ancora un anno nella pandemia, dato l'alto numero di persone con difficoltà di apprendimento che avevano contratto il Covid e che avevano quindi avuto bisogno di ossigeno come qualsiasi altro paziente.


Frances ora è stata fortunatamente dimessa dall'ospedale e la difesa pubblica di Jo, insieme alle preoccupazioni sollevate dai genitori e dalle campagne di vari gruppi, ha portato il governo inglese ad alzare la priorità di vaccinazione per tutte le persone che si trovano su un registro dei medici di base per una disabilità dell'apprendimento.

 

Una storia di disuguaglianza sanitaria

Anche se siamo in circostanze eccezionali a causa del Covid-19, le preoccupazioni sulla qualità della cura per le persone con disabilità dell'apprendimento non sono nuove, né lo sono gli alti tassi di mortalità in questo gruppo.


Nel 2019, il NHS (National Health System, servizio sanitario nazionale in GB) ha pubblicato una relazione che ha esaminato la morte di oltre 1.000 persone con disabilità dell'apprendimento da 2016 al 2018. Il rapporto ha rilevato che l'età media della morte per gli uomini con una disabilità di apprendimento era 60 anni rispetto agli 83 degli uomini della popolazione generale. L'età media della morte per le donne con una disabilità di apprendimento era di 59 anni rispetto agli 86.


Nel 2007, un rapporto Mencap aveva sollevato preoccupazioni sugli atteggiamenti discriminatori alle persone con disabilità dell'apprendimento durante l'uso dei servizi sanitari. Nel 2012, Mencap ha documentato ulteriori problemi significativi sul numero sproporzionato di decessi dei pazienti con disabilità dell'apprendimento negli ospedali. Sosteneva che il NHS stava continuando a ignorare questi pazienti in termini di cure di base, cattiva comunicazione, diagnosi ritardata e scarsa adesione ai principi che sottendono la legge sulla capacità mentale.


Tutto ciò mostra una distinta mancanza di progressi e che le morti precoci di persone con disabilità dell'apprendimento sono spesso inutili ed evitabili. Questa è una possibile spiegazione che dovrebbe essere considerata quando si chiede perché hanno un tasso di mortalità Covid più alto.


Anche se le campagne guidate da celebrità possono far accadere il cambiamento, dobbiamo fare una differenza a lungo termine. Ciò include un impegno per ascoltare le persone con disabilità dell'apprendimento, vedere la loro vita come quella di qualsiasi altro cittadino, e lavorare in modo collaborativo per affrontare l'esclusione sociale, la scarsa fornitura di cure e la continua emarginazione oltre la pandemia.

 

 

 


Fonte: Jo Finch (vice direttrice del Centre for Social Work Research) e Janet Hoskin (docente senior Facoltà Istruzione e Comunità), University of East London

Pubblicato su The Conversation (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

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ImagingTau

Come ricercatore sul morbo di Alzheimer (MA) e neurologo che si prende cura delle persone con la malattia, condivido la frustrazione, anzi la rabbia, delle persone e delle famiglie quando dico loro che non ho una cura da offrire.


Nell'ultimo anno, gli scienziati hanno affrontato il Covid-19, una malattia finora sconosciuta e in pochi mesi hanno sviluppato nuovi vaccini efficaci. Nello stesso periodo di tempo, si è vieppiù allungata la lista dei fallimenti per un trattamento del MA. Attualmente, gli unici farmaci approvati per il MA alleviano semplicemente alcuni dei sintomi - parzialmente e temporaneamente - ma non fermano l'incedere della malattia.


Anche se è stata inizialmente descritta ufficialmente 115 anni fa, e naturalmente esisteva molto prima, non abbiamo ancora una cura per questa malattia devastante. Perché?


Iniziamo seguendo i soldi. Per anni, i sostenitori dei pazienti hanno indicato il pedaggio crescente e i costi impazziti del MA mentre la popolazione mondiale invecchiava. La ricerca sul MA è gravemente sotto-finanziata rispetto a quella del cancro, delle malattie cardiache, dell'HIV/AIDS e persino del COVID-19.


Purtroppo, la convinzione sbagliata che il MA colpisce solo le persone anziane è un fattore che contribuisce a questo sotto-finanziamento. Tuttavia, il 5-10% delle persone con MA ha meno di 65 anni; alcuni anche meno di 50. Il MA è anche una malattia dell'intera famiglia, causando ansia, depressione e esaurimento ai caregiver e ai propri cari, esigendo un costo socio-economico sproporzionato.

 

Teorie contrastanti

Il finanziamento non è l'unico problema qui. Il cervello umano è estremamente complesso, e il MA è la malattia più complessa del cervello. Le sfide che derivano da questa collisione di complessità si riflettono sulle numerose teorie in competizione sull'origine del MA.


La teoria più diffusa è che il MA è causato da proteine mal ripiegate che si aggregano in grumi, uccidendo le cellule cerebrali e dando origine ai sintomi di perdita di memoria e di declino cognitivo. Inizialmente, il colpevole in questa storia di ripiegamento errato era una proteina chiamata amiloide-beta. Più di recente, un'altra proteina, la tau, è emersa come possibile contributore.


Sebbene una ricchezza di dati di ricerca abbia supportato questa teoria di errato ripiegamento delle proteine (l'ipotesi amiloide), molteplici farmaci progettati per bloccare i processi di errato ripiegamento delle proteine ​​tossiche del cervello sono falliti negli esperimenti umani, uno dopo l'altro. Infatti, negli ultimi due anni, diversi studi clinici importanti, basati sull'ipotesi leader del campo (che ridurre il livello di amiloide-beta aggregata che riempie il cervello dei pazienti di MA fermerebbe la progressione della malattia) hanno fallito drasticamente.


E così ci sono molte altre teorie. Un nuovo contendente pesante è la teoria della neuroinfiammazione del MA che suggerisce che la malattia deriva da un rilascio eccessivo di sostanze chimiche infiammatorie tossiche dalle cellule immunitarie nel cervello chiamate microglia. I farmaci progettati per affrontare questa teoria sono fondamentalmente diversi da quelli che puntano l'ipotesi amiloide e sono ancora all'inizio del processo di sviluppo.


Una teoria diversa rivendica che il MA è una malattia delle sinapsi, che sono le giunzioni tra le cellule cerebrali, e tuttavia un altro suggerisce che è una malattia dei mitocondri, una struttura centrale per la produzione di energia presente in ogni cellula cerebrale.

 

Sfide per trovare una cura

Il percorso verso una cura non sarà facile, e anche se queste teorie portano allo sviluppo di farmaci, questi ultimi possono fallire per una serie di altri motivi.


Il MA è una malattia molto lunga, cronica, probabilmente presente da 20 a 30 anni prima che siano evidenti i primi sintomi. Dare il farmaco quando una persona diventa sintomatica potrebbe essere troppo tardi per fare la differenza. Ma non abbiamo la capacità di fare una diagnosi 30 anni prima dei primi sintomi, e anche se potessimo, avremmo bisogno di considerare l'etica di dare un farmaco potenzialmente tossico a lungo termine a qualcuno che può o non può avere la malattia dopo tre decenni.


Inoltre, a differenza dello sviluppo di antibiotici, in cui i ricercatori sanno in pochi giorni se il farmaco funziona, la natura cronica del MA richiede esperimenti lunghi e costosi - che durano anni - prima di avere una risposta. Tale tempo e spesa è un ulteriore impedimento allo sviluppo di farmaci.


Un problema finale è che il MA potrebbe non essere semplicemente una malattia. Potrebbe infatti essere un insieme di malattie simili. Un 52enne con MA ad insorgenza precoce ha certamente un decorso clinico distinto e diverso da un 82enne con il MA a tarda insorgenza. Un farmaco che funziona in un 82enne lavora anche nella malattia della persona di 52 anni? Forse si, o forse no.


Per fortuna, nonostante questi numerosi ostacoli, nei laboratori di tutto il mondo si stanno svolgendo ricerche affascinanti e incoraggianti. I successi della scienza e dell'industria farmaceutica contro molte altre malattie nel secolo scorso sono spesso nate dalla soluzione di problemi semplici. Il MA non è un gioco da ragazzi, ma quello più difficile, e gli scienziati dovranno risolvere molti problemi, molti dei quali non sono mai stati affrontati, sulla strada per una cura. Ma ci arriveremo.

 

 

 


Fonte: Donald Weaver, professore di chimica e direttore del Krembil Research Institute dell'Università di Toronto.

Pubblicato su The Conversation (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

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Fonte:

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Come ricercatore sul morbo di Alzheimer (MA) e neurologo che si prende cura delle persone con la malattia, condivido la frustrazione, anzi la rabbia, delle persone e delle famiglie quando dico loro che non ho una cura da offrire.


Nell'ultimo anno, gli scienziati hanno affrontato il Covid-19, una malattia finora sconosciuta e in pochi mesi hanno sviluppato nuovi vaccini efficaci. Nello stesso periodo di tempo, si è vieppiù allungata la lista dei fallimenti per un trattamento del MA. Attualmente, gli unici farmaci approvati per il MA alleviano semplicemente alcuni dei sintomi - parzialmente e temporaneamente - ma non fermano l'incedere della malattia.


Anche se è stata inizialmente descritta ufficialmente 115 anni fa, e naturalmente esisteva molto prima, non abbiamo ancora una cura per questa malattia devastante. Perché?


Iniziamo seguendo i soldi. Per anni, i sostenitori dei pazienti hanno indicato il pedaggio crescente e i costi impazziti del MA mentre la popolazione mondiale invecchiava. La ricerca sul MA è gravemente sotto-finanziata rispetto a quella del cancro, delle malattie cardiache, dell'HIV/AIDS e persino del COVID-19.


Purtroppo, la convinzione sbagliata che il MA colpisce solo le persone anziane è un fattore che contribuisce a questo sotto-finanziamento. Tuttavia, il 5-10% delle persone con MA ha meno di 65 anni; alcuni anche meno di 50. Il MA è anche una malattia dell'intera famiglia, causando ansia, depressione e esaurimento ai caregiver e ai propri cari, esigendo un costo socio-economico sproporzionato.

 

Teorie contrastanti

Il finanziamento non è l'unico problema qui. Il cervello umano è estremamente complesso, e il MA è la malattia più complessa del cervello. Le sfide che derivano da questa collisione di complessità si riflettono sulle numerose teorie in competizione sull'origine del MA.


La teoria più diffusa è che il MA è causato da proteine mal ripiegate che si aggregano in grumi, uccidendo le cellule cerebrali e dando origine ai sintomi di perdita di memoria e di declino cognitivo. Inizialmente, il colpevole in questa storia di ripiegamento errato era una proteina chiamata amiloide-beta. Più di recente, un'altra proteina, la tau, è emersa come possibile contributore.


Sebbene una ricchezza di dati di ricerca abbia supportato questa teoria di errato ripiegamento delle proteine (l'ipotesi amiloide), molteplici farmaci progettati per bloccare i processi di errato ripiegamento delle proteine ​​tossiche del cervello sono falliti negli esperimenti umani, uno dopo l'altro. Infatti, negli ultimi due anni, diversi studi clinici importanti, basati sull'ipotesi leader del campo (che ridurre il livello di amiloide-beta aggregata che riempie il cervello dei pazienti di MA fermerebbe la progressione della malattia) hanno fallito drasticamente.


E così ci sono molte altre teorie. Un nuovo contendente pesante è la teoria della neuroinfiammazione del MA che suggerisce che la malattia deriva da un rilascio eccessivo di sostanze chimiche infiammatorie tossiche dalle cellule immunitarie nel cervello chiamate microglia. I farmaci progettati per affrontare questa teoria sono fondamentalmente diversi da quelli che puntano l'ipotesi amiloide e sono ancora all'inizio del processo di sviluppo.


Una teoria diversa rivendica che il MA è una malattia delle sinapsi, che sono le giunzioni tra le cellule cerebrali, e tuttavia un altro suggerisce che è una malattia dei mitocondri, una struttura centrale per la produzione di energia presente in ogni cellula cerebrale.

 

Sfide per trovare una cura

Il percorso verso una cura non sarà facile, e anche se queste teorie portano allo sviluppo di farmaci, questi ultimi possono fallire per una serie di altri motivi.


Il MA è una malattia molto lunga, cronica, probabilmente presente da 20 a 30 anni prima che siano evidenti i primi sintomi. Dare il farmaco quando una persona diventa sintomatica potrebbe essere troppo tardi per fare la differenza. Ma non abbiamo la capacità di fare una diagnosi 30 anni prima dei primi sintomi, e anche se potessimo, avremmo bisogno di considerare l'etica di dare un farmaco potenzialmente tossico a lungo termine a qualcuno che può o non può avere la malattia dopo tre decenni.


Inoltre, a differenza dello sviluppo di antibiotici, in cui i ricercatori sanno in pochi giorni se il farmaco funziona, la natura cronica del MA richiede esperimenti lunghi e costosi - che durano anni - prima di avere una risposta. Tale tempo e spesa è un ulteriore impedimento allo sviluppo di farmaci.


Un problema finale è che il MA potrebbe non essere semplicemente una malattia. Potrebbe infatti essere un insieme di malattie simili. Un 52enne con MA ad insorgenza precoce ha certamente un decorso clinico distinto e diverso da un 82enne con il MA a tarda insorgenza. Un farmaco che funziona in un 82enne lavora anche nella malattia della persona di 52 anni? Forse si, o forse no.


Per fortuna, nonostante questi numerosi ostacoli, nei laboratori di tutto il mondo si stanno svolgendo ricerche affascinanti e incoraggianti. I successi della scienza e dell'industria farmaceutica contro molte altre malattie nel secolo scorso sono spesso nate dalla soluzione di problemi semplici. Il MA non è un gioco da ragazzi, ma quello più difficile, e gli scienziati dovranno risolvere molti problemi, molti dei quali non sono mai stati affrontati, sulla strada per una cura. Ma ci arriveremo.

 

 

 


Fonte: Donald Weaver, professore di chimica e direttore del Krembil Research Institute dell'Università di Toronto.

Pubblicato su The Conversation (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

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Le malattie cerebrali, come il morbo di Alzheimer (MA) e di Parkinson (MP), hanno un impatto diverso tra uomini e donne, per cui dei ricercatori stanno sollecitando i loro colleghi a ricordare quelle differenze durante la ricerca di trattamenti e cure.


Con uno studio pubblicato su APL Bioingegnering, scienziati dell'Università del Maryland evidenziano il crescente corpo di ricerca che suggerisce il ruolo delle differenze sessuali nella risposta dei pazienti alle malattie cerebrali, come pure nella sclerosi multipla, nella malattia del motoneurone e in altri disturbi del cervello.


Alisa Morss Clyne, direttrice del laboratorio di cinetica vascolare dell'università, ha detto:

"Questo è un progresso di pochi anni fa. Lavoro con le cellule vascolari da 20 anni e, fino a circa 5 anni fa, se mi chiedevi se il sesso delle mie cellule era importante, avrei detto di no".

Quindi, ho lavorato su uno studio difficile in cui i dati erano diffusi 'dappertutto'. Abbiamo separato i dati delle cellule per sesso, e tutto ha avuto senso. Era un richiamo per me che avrei dovuto studiare questo".


Nel 2020, esistevano circa 5,8 milioni di americani con diagnosi di MA, 1 milione con MP, 914.000 con sclerosi multipla e 63.000 con malattia del motoneurone. Queste malattie insorgono quando le cellule nervose nel cervello e nel sistema nervoso smettono di funzionare e, infine, muoiono.


I cambiamenti sono associati alla rottura di ciò che è chiamata barriera emato-encefalica (BBB, brain-blood barrier) un bordo di cellule che impediscono ai tipi sbagliati di molecole presenti nel flusso sanguigno di entrare nel cervello e danneggiarlo. La ricerca pubblicata ha mostrato differenze nella BBB tra uomini e donne.


Alcune delle ricerche suggeriscono che la barriera può essere più forte nelle donne rispetto agli uomini, e la barriera degli uomini e delle donne è costruita e si comporta in modo diverso. Ciò potrebbe essere un fattore nelle differenze note tra i sessi, come la maggiore prevalenza del MA nelle donne anziane rispetto agli uomini, mentre il MP ha un impatto più frequente negli uomini, dove tende ad essere più grave.


Gli autori hanno detto che sperano che il loro studio fungerà da promemoria per i ricercatori non solo del proprio campo, ma in tutte le scienze, che tenere conto delle differenze sessuali porta a risultati migliori.


"Penso che da circa 10 anni ci sia la consapevolezza che non si possono ignorare le differenze sessuali", ha detto la Clyne. "Il mio obiettivo è ispirare le persone a includere le differenze sessuali nella loro ricerca, non importa quale ricerca stiano facendo".

 

 

 

 


Fonte: American Institute of Physics (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: Callie Weber, Alisa Morss Clyne. Sex differences in the blood–brain barrier and neurodegenerative diseases. APL Bioengineering, 2021, DOI

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Fonte:

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Le malattie cerebrali, come il morbo di Alzheimer (MA) e di Parkinson (MP), hanno un impatto diverso tra uomini e donne, per cui dei ricercatori stanno sollecitando i loro colleghi a ricordare quelle differenze durante la ricerca di trattamenti e cure.


Con uno studio pubblicato su APL Bioingegnering, scienziati dell'Università del Maryland evidenziano il crescente corpo di ricerca che suggerisce il ruolo delle differenze sessuali nella risposta dei pazienti alle malattie cerebrali, come pure nella sclerosi multipla, nella malattia del motoneurone e in altri disturbi del cervello.


Alisa Morss Clyne, direttrice del laboratorio di cinetica vascolare dell'università, ha detto:

"Questo è un progresso di pochi anni fa. Lavoro con le cellule vascolari da 20 anni e, fino a circa 5 anni fa, se mi chiedevi se il sesso delle mie cellule era importante, avrei detto di no".

Quindi, ho lavorato su uno studio difficile in cui i dati erano diffusi 'dappertutto'. Abbiamo separato i dati delle cellule per sesso, e tutto ha avuto senso. Era un richiamo per me che avrei dovuto studiare questo".


Nel 2020, esistevano circa 5,8 milioni di americani con diagnosi di MA, 1 milione con MP, 914.000 con sclerosi multipla e 63.000 con malattia del motoneurone. Queste malattie insorgono quando le cellule nervose nel cervello e nel sistema nervoso smettono di funzionare e, infine, muoiono.


I cambiamenti sono associati alla rottura di ciò che è chiamata barriera emato-encefalica (BBB, brain-blood barrier) un bordo di cellule che impediscono ai tipi sbagliati di molecole presenti nel flusso sanguigno di entrare nel cervello e danneggiarlo. La ricerca pubblicata ha mostrato differenze nella BBB tra uomini e donne.


Alcune delle ricerche suggeriscono che la barriera può essere più forte nelle donne rispetto agli uomini, e la barriera degli uomini e delle donne è costruita e si comporta in modo diverso. Ciò potrebbe essere un fattore nelle differenze note tra i sessi, come la maggiore prevalenza del MA nelle donne anziane rispetto agli uomini, mentre il MP ha un impatto più frequente negli uomini, dove tende ad essere più grave.


Gli autori hanno detto che sperano che il loro studio fungerà da promemoria per i ricercatori non solo del proprio campo, ma in tutte le scienze, che tenere conto delle differenze sessuali porta a risultati migliori.


"Penso che da circa 10 anni ci sia la consapevolezza che non si possono ignorare le differenze sessuali", ha detto la Clyne. "Il mio obiettivo è ispirare le persone a includere le differenze sessuali nella loro ricerca, non importa quale ricerca stiano facendo".

 

 

 

 


Fonte: American Institute of Physics (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: Callie Weber, Alisa Morss Clyne. Sex differences in the blood–brain barrier and neurodegenerative diseases. APL Bioengineering, 2021, DOI

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L'uso dell'aspartame è ancora accompagnato da polemiche e le prove disponibili suggeriscono alcuni collegamenti, ma non indicano effetti negativi a lungo termine. I meccanismi precisi del legame tra aspartame e Alzheimer non sono completamente chiari e sono necessarie altre ricerche per indagare su questi meccanismi e su qualsiasi associazione sottostante.


Uno studio del 2017 pubblicato sulla rivista Stroke ha concluso che "un'assunzione cumulativa più elevata di bevande analcoliche dolcificate artificialmente si è associata ad un aumento del rischio di ictus ischemico, di demenza per qualsiasi causa e di demenza di Alzheimer".

Il rischio di sviluppare la demenza o di avere un ictus è quasi tre volte più alto se qualcuno consuma anche solo una lattina al giorno di una bevanda zuccherata artificialmente.


Inoltre, un rapporto del 2018 in Current Diabetes Review, afferma che l'aspartame può anche fungere da stressante chimico nel corpo, aumentando i livelli dell'ormone cortisolo che promuove l'aumento di peso e produce anche radicali liberi che causano stress ossidativo nel corpo, tutti fattori di alto rischio per un cuore e uno stile di vita sani.

I ricercatori hanno anche ammonito che c'erano incoerenze nei risultati e che erano necessari altri studi clinici per supportare i pericoli dell'aspartame.


In un altro rapporto del 2017 pubblicato su Nutritional Neuroscience, l'aspartame è stato ritenuto collegato a vari problemi comportamentali e cognitivi, comprese difficoltà di apprendimento, convulsioni, mal di testa ed emicrania, ansia, depressione e insonnia. L'aspartame è anche uno stressante chimico che può aumentare il cortisolo che può causare aumento di peso, danni ai vasi sanguigni e accumulo di placca, che è anche dura per il cuore.


Il dott. David Perlmutter, autore di The Grain Brain: The Surprising Truth about Wheat, Carbs, and Sugar — Your Brain’s Silent Killers (Cervello di cereali: La sorprendente verità sul grano, i carboidrati e lo zucchero, gli omicidi silenziosi del tuo cervello), rileva che, secondo la sua ricerca, ictus e Alzheimer condividono un meccanismo simile in termini di causa. Ictus e Alzheimer sono principalmente disturbi infiammatori. Quando si assumono dolcificanti artificiali, si inducono cambiamenti nei batteri intestinali che causano un ambiente più infiammatorio nel nostro corpo, ha detto.


L'aspartame è noto per sovra-stimolare i neurotrasmettitori (i messaggeri chimici) nel cervello. Quantità eccessive possono danneggiare i neuroni e causare morte cellulare, che sono associate a problemi di memoria e alla demenza.


Le opzioni alternative ai dolcificanti per cibi e bevande includono miele, sciroppo d'acero, nettare di agave, succo di frutta o stevia. Come l'aspartame, tuttavia, queste opzioni naturali dovrebbero essere consumate in quantità limitate.

 

 

 


Fonte: Dana Territo in The Advocate (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

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Fonte:

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L'aspartame è un dolcificante comune senza zucchero presente negli Stati Uniti dai primi anni '80. Si trova in oltre 6.000 prodotti, tra cui Diet Coke, Diet Pepsi, Crystal Light e Kool-Aid. Viene anche venduto con marchi come NutraSweet e Equal.


L'uso dell'aspartame è ancora accompagnato da polemiche e le prove disponibili suggeriscono alcuni collegamenti, ma non indicano effetti negativi a lungo termine. I meccanismi precisi del legame tra aspartame e Alzheimer non sono completamente chiari e sono necessarie altre ricerche per indagare su questi meccanismi e su qualsiasi associazione sottostante.


Uno studio del 2017 pubblicato sulla rivista Stroke ha concluso che "un'assunzione cumulativa più elevata di bevande analcoliche dolcificate artificialmente si è associata ad un aumento del rischio di ictus ischemico, di demenza per qualsiasi causa e di demenza di Alzheimer".

Il rischio di sviluppare la demenza o di avere un ictus è quasi tre volte più alto se qualcuno consuma anche solo una lattina al giorno di una bevanda zuccherata artificialmente.


Inoltre, un rapporto del 2018 in Current Diabetes Review, afferma che l'aspartame può anche fungere da stressante chimico nel corpo, aumentando i livelli dell'ormone cortisolo che promuove l'aumento di peso e produce anche radicali liberi che causano stress ossidativo nel corpo, tutti fattori di alto rischio per un cuore e uno stile di vita sani.

I ricercatori hanno anche ammonito che c'erano incoerenze nei risultati e che erano necessari altri studi clinici per supportare i pericoli dell'aspartame.


In un altro rapporto del 2017 pubblicato su Nutritional Neuroscience, l'aspartame è stato ritenuto collegato a vari problemi comportamentali e cognitivi, comprese difficoltà di apprendimento, convulsioni, mal di testa ed emicrania, ansia, depressione e insonnia. L'aspartame è anche uno stressante chimico che può aumentare il cortisolo che può causare aumento di peso, danni ai vasi sanguigni e accumulo di placca, che è anche dura per il cuore.


Il dott. David Perlmutter, autore di The Grain Brain: The Surprising Truth about Wheat, Carbs, and Sugar — Your Brain’s Silent Killers (Cervello di cereali: La sorprendente verità sul grano, i carboidrati e lo zucchero, gli omicidi silenziosi del tuo cervello), rileva che, secondo la sua ricerca, ictus e Alzheimer condividono un meccanismo simile in termini di causa. Ictus e Alzheimer sono principalmente disturbi infiammatori. Quando si assumono dolcificanti artificiali, si inducono cambiamenti nei batteri intestinali che causano un ambiente più infiammatorio nel nostro corpo, ha detto.


L'aspartame è noto per sovra-stimolare i neurotrasmettitori (i messaggeri chimici) nel cervello. Quantità eccessive possono danneggiare i neuroni e causare morte cellulare, che sono associate a problemi di memoria e alla demenza.


Le opzioni alternative ai dolcificanti per cibi e bevande includono miele, sciroppo d'acero, nettare di agave, succo di frutta o stevia. Come l'aspartame, tuttavia, queste opzioni naturali dovrebbero essere consumate in quantità limitate.

 

 

 


Fonte: Dana Territo in The Advocate (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

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MIT Blood Brain Barrier

Hai dimenticato dove hai messo le chiavi? Ti sei mai chiesto dove avevi parcheggiato l'auto? O hai avuto problemi a ricordare il nome del nuovo vicino? Sfortunatamente, queste cose sembrano peggiorare quando si invecchia. Una grande domanda per i ricercatori è dove finisce la dimenticanza benigna e inizia la vera malattia.


Una delle chiavi per avere un cervello sano a qualsiasi età è avere una barriera emato-encefalica (BBB, brain-blood barrier) sana, un'interfaccia complessa di vasi sanguigni presente in tutto il cervello. Dei ricercatori hanno rivisto più di 150 studi per capire ciò che accade alla BBB mentre invecchiamo. Le loro scoperte sono state pubblicate il ​​15 marzo su Nature Aging.


Che i cambiamenti alla BBB alterino la funzione cerebrale è ancora materia di dibattito. Ma la ricerca dimostra che la BBB diventa permeabile mentre invecchiamo, e perdiamo le cellule chiamate periciti.


"Sappiamo molto poco come invecchia la BBB", ha affermato il primo autore William Banks, ricercatore in gerontologia dell'Università di Washington e del Veterans Affairs Puget Sound Health Care System. "È spesso difficile distinguere il normale invecchiamento dalla malattia precoce".


La BBB, scoperta alla fine del 1800, impedisce l'entrata non regolata di sostanze, attraverso il sangue, nel cervello, un organo particolarmente sensibile che non può tollerare l'esposizione diretta a molte delle sostanze presenti nel sangue. Gli scienziati capiscono sempre di più che la BBB consente anche a molte sostanze di entrare nel cervello in modo regolamentato, per soddisfare le esigenze nutrizionali del cervello. Essa trasporta anche molecole informative dal sangue al cervello e pompa fuori dal cervello le tossine. Una BBB mal funzionante può contribuire a malattie come la sclerosi multipla, il diabete e il morbo di Alzheimer (MA).


Prima che gli scienziati possano capire come tale malfunzionamento può contribuire alle malattie dell'invecchiamento, devono capire come invecchia di norma la BBB. La ricerca mostra che gli individui sani invecchiando hanno una perdita molto piccola nella BBB. Questa perdita è associata a alcuni valori di dimenticanza benigna dell'invecchiamento, considerato normale dalla maggior parte degli scienziati.


Ma questa perdita e le difficoltà di richiamo dei ricordi potrebbero essere le prime fasi del MA? Quando una persona è portatrice dell'allele ApoE4, il fattore di rischio genetico più forte del MA, secondo i ricercatori c'è un'accelerazione della maggior parte dei cambiamenti relativi all'età della BBB. Le persone con ApoE4 hanno difficoltà a eliminare dal cervello il peptide amiloide-beta, che provoca un accumulo di placca. Nell'invecchiamento sano, le pompe nella BBB lavorano in modo meno efficiente per liberarsi del peptide amiloide-beta. Le pompe funzionano ancora peggio nelle persone con MA.


Un'altra scoperta cruciale della revisione è che mentre invecchiamo, nella BBB due cellule cominciano a cambiare: periciti e astrociti. I lavori recenti suggeriscono che le perdite nella BBB, che avvengono con il MA possono essere dovute a una perdita relativa all'età di periciti. Gli astrociti, al contrario, sembrano essere iperattivi. Un lavoro recente suggerisce che preservare la funzione dei periciti, aumentando i fattori che essi secernono, o addirittura trapiantandoli, potrebbe portare a una BBB più sana.


Alcune ricerche suggeriscono che la salute dei periciti può essere conservata da alcuni degli stessi interventi che estendono la durata della vita, come l'esercizio fisico regolare, la restrizione calorica e la rapamicina.


Altre scoperte sollevano la domanda se la fonte di alimentazione del cervello e la sua presa sul controllo dei sistemi immunitari e endocrini possono deteriorarsi con l'invecchiamento. Un'altra scoperta solleva la possibilità che il tasso in cui sono assorbiti molti farmaci dal cervello può spiegare perché le persone più anziane a volte abbiano una sensibilità diversa ai farmaci rispetto ai loro figli o nipoti.

 

 

 


Fonte: University of Washington (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: William Banks, May Reed, Aric Logsdon, Elizabeth Rhea, Michelle Erickson. Healthy aging and the blood–brain barrier. Nature Aging, 2021, DOI

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MIT Blood Brain Barrier

Hai dimenticato dove hai messo le chiavi? Ti sei mai chiesto dove avevi parcheggiato l'auto? O hai avuto problemi a ricordare il nome del nuovo vicino? Sfortunatamente, queste cose sembrano peggiorare quando si invecchia. Una grande domanda per i ricercatori è dove finisce la dimenticanza benigna e inizia la vera malattia.


Una delle chiavi per avere un cervello sano a qualsiasi età è avere una barriera emato-encefalica (BBB, brain-blood barrier) sana, un'interfaccia complessa di vasi sanguigni presente in tutto il cervello. Dei ricercatori hanno rivisto più di 150 studi per capire ciò che accade alla BBB mentre invecchiamo. Le loro scoperte sono state pubblicate il ​​15 marzo su Nature Aging.


Che i cambiamenti alla BBB alterino la funzione cerebrale è ancora materia di dibattito. Ma la ricerca dimostra che la BBB diventa permeabile mentre invecchiamo, e perdiamo le cellule chiamate periciti.


"Sappiamo molto poco come invecchia la BBB", ha affermato il primo autore William Banks, ricercatore in gerontologia dell'Università di Washington e del Veterans Affairs Puget Sound Health Care System. "È spesso difficile distinguere il normale invecchiamento dalla malattia precoce".


La BBB, scoperta alla fine del 1800, impedisce l'entrata non regolata di sostanze, attraverso il sangue, nel cervello, un organo particolarmente sensibile che non può tollerare l'esposizione diretta a molte delle sostanze presenti nel sangue. Gli scienziati capiscono sempre di più che la BBB consente anche a molte sostanze di entrare nel cervello in modo regolamentato, per soddisfare le esigenze nutrizionali del cervello. Essa trasporta anche molecole informative dal sangue al cervello e pompa fuori dal cervello le tossine. Una BBB mal funzionante può contribuire a malattie come la sclerosi multipla, il diabete e il morbo di Alzheimer (MA).


Prima che gli scienziati possano capire come tale malfunzionamento può contribuire alle malattie dell'invecchiamento, devono capire come invecchia di norma la BBB. La ricerca mostra che gli individui sani invecchiando hanno una perdita molto piccola nella BBB. Questa perdita è associata a alcuni valori di dimenticanza benigna dell'invecchiamento, considerato normale dalla maggior parte degli scienziati.


Ma questa perdita e le difficoltà di richiamo dei ricordi potrebbero essere le prime fasi del MA? Quando una persona è portatrice dell'allele ApoE4, il fattore di rischio genetico più forte del MA, secondo i ricercatori c'è un'accelerazione della maggior parte dei cambiamenti relativi all'età della BBB. Le persone con ApoE4 hanno difficoltà a eliminare dal cervello il peptide amiloide-beta, che provoca un accumulo di placca. Nell'invecchiamento sano, le pompe nella BBB lavorano in modo meno efficiente per liberarsi del peptide amiloide-beta. Le pompe funzionano ancora peggio nelle persone con MA.


Un'altra scoperta cruciale della revisione è che mentre invecchiamo, nella BBB due cellule cominciano a cambiare: periciti e astrociti. I lavori recenti suggeriscono che le perdite nella BBB, che avvengono con il MA possono essere dovute a una perdita relativa all'età di periciti. Gli astrociti, al contrario, sembrano essere iperattivi. Un lavoro recente suggerisce che preservare la funzione dei periciti, aumentando i fattori che essi secernono, o addirittura trapiantandoli, potrebbe portare a una BBB più sana.


Alcune ricerche suggeriscono che la salute dei periciti può essere conservata da alcuni degli stessi interventi che estendono la durata della vita, come l'esercizio fisico regolare, la restrizione calorica e la rapamicina.


Altre scoperte sollevano la domanda se la fonte di alimentazione del cervello e la sua presa sul controllo dei sistemi immunitari e endocrini possono deteriorarsi con l'invecchiamento. Un'altra scoperta solleva la possibilità che il tasso in cui sono assorbiti molti farmaci dal cervello può spiegare perché le persone più anziane a volte abbiano una sensibilità diversa ai farmaci rispetto ai loro figli o nipoti.

 

 

 


Fonte: University of Washington (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: William Banks, May Reed, Aric Logsdon, Elizabeth Rhea, Michelle Erickson. Healthy aging and the blood–brain barrier. Nature Aging, 2021, DOI

Copyright: Tutti i diritti di testi o marchi inclusi nell'articolo sono riservati ai rispettivi proprietari.

Liberatoria: Questo articolo non propone terapie o diete; per qualsiasi modifica della propria cura o regime alimentare si consiglia di rivolgersi a un medico o dietologo. Il contenuto non rappresenta necessariamente l'opinione dell'Associazione Alzheimer OdV di Riese Pio X ma solo quella dell'autore citato come "Fonte". I siti terzi raggiungibili da eventuali collegamenti contenuti nell'articolo e/o dagli annunci pubblicitari sono completamente estranei all'Associazione, il loro accesso e uso è a discrezione dell'utente. Liberatoria completa qui.

Nota: L'articolo potrebbe riferire risultati di ricerche mediche, psicologiche, scientifiche o sportive che riflettono lo stato delle conoscenze raggiunte fino alla data della loro pubblicazione.


 

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Cerebellum

Il nostro cervello ha quattro emisferi (non due)

La materia grigia è la 'corteccia' che racchiude sia gli emisferi del cerebro ('corteccia cerebrale') e sia gli emisferi del cervelletto ('corteccia cerebellare').


Sfortunatamente, gli emisferi sinistro e destro del cervelletto sono spesso trascurati dai ricercatori e dal pubblico in generale. È comprensibile che molte persone assumano che il cervello abbia solo due emisferi; la semantica che circonda i riferimenti 'cervello-sinistro e cervello destro' può essere contrastante e potenzialmente confondente.


Ad esempio, il latino cerebrum significa cervello, mentre il latino cerebellum significa 'piccolo cervello'. Pertanto, tecnicamente parlando, gli emisferi sinistro e destro del cerebrum, che sono marcati 'cervello sinistro-cervello destro', potrebbero essere considerati gli unici due emisferi nel cervello (grande). E gli emisferi sinistro e destro del cervelletto potrebbero essere pensati come due emisferi nel 'piccolo cervello'.


Ma in definitiva, quasi tutte le definizioni del 'cervello umano' riconoscono che questo termine ombrello rappresenta l'intero cervello come un unico organo. Come riassume Wikipedia: "Il cervello è costituito dal cerebro, dal tronco cerebrale e dal cervelletto".


In particolare, poiché l'emisfero sinistro del cervelletto funziona in congiunzione con l'emisfero cerebrale destro (e viceversa), per coordinare i movimenti muscolari bilaterali e altre funzioni inter-emisferiche non motorie, la connettività funzionale della materia bianca e la struttura della materia grigia di questi quattro emisferi sono della massima importanza.

 

L'assottigliamento asimmetrico degli emisferi cerebrali sinistro e destro può essere collegato all'Alzheimer

Il mese scorso, ho riferito di uno studio (Roe et al., 2021) pubblicato il 1 febbraio su Nature Communications, che ha trovato che l'assottigliamento asimmetrico della materia grigia negli emisferi sinistro e destro della corteccia cerebrale è accelerato nei pazienti con morbo di Alzheimer (MA). Come spiega James Roe e i coautori:

"L'invecchiamento e il MA sono associati alla progressiva disorganizzazione del cervello. Sebbene l'asimmetria strutturale sia una caratteristica organizzativa della corteccia cerebrale, non sappiamo se la degradazione corticale continuativa correlata all'età e al MA altera l'asimmetria corticale [...] L'asimmetria sembra essere sorta dalla pressione evolutiva per ottimizzare l'efficienza di elaborazione e si pensa in generale che conferisca vantaggi organizzativi che danno benefici alla funzione del cervello.

Qui, mostriamo che l'organizzazione asimmetrica delle regioni corticali di ordine superiore nella giovane età adulta si deteriora con avanzare dell'età. Questo decadimento segue un semplice principio di organizzazione generale: la più spessa delle due cornici omotopiche è la più veloce a assottigliarsi. Questo principio era altamente riproducibile in diverse coorti ed era significativamente accentuato nei pazienti di MA".


In un post auto-narrativo del 19 febbraio 2021 ho filtrato questo studio Roe et al. e altre ricerche recenti su 'cervello sinistro - cervello destro' attraverso una mappa confondente del cervello che ho disegnato nel 2009, che tenta di animare come potrebbero essere rappresentate la struttura (materia grigia) e la connettività funzionale (materia bianca) tra tutti e quattro gli emisferi cerebrali, in una configurazione bidirezionale. Scrissi:

"Nella mia modesta opinione, vale la pena notare che le disfunzioni del cervelletto sono legate anche ad un'elevata variabilità dell'andatura (Schniepp et al., 2011) e c'è un collegamento consolidato tra il cervelletto e il MA (Wegiel et al., 1999; Jacobs et al., 2017; Toniolo et al., 2018)".

 

La perdita di materia grigia accelerata nell'emisfero destro del cervelletto può essere collegata al MA

Ora, una nuova meta-analisi (Gellersen, Guell, & Sami, 2021) guidata da ricercatori dell'Università di Cambridge confronta "la perdita di materia grigia del cervelletto nel MA e quella nell'invecchiamento normale". Oltre a Helena Gellersen e Sabre Sami di Cambridge, a questo studio pubblicato il 4 marzo su NeuroImage: Clinical ha contribuito anche Xavier Guell del MIT e della Harvard Medical School's del MGH. 


È interessante notare che questa meta-analisi suggerisce che il "cervelletto posteriore è influenzato sia dall'invecchiamento sano che dal MA" e che "l'invecchiamento sano ha mostrato una perdita bilaterale di materia grigia, mentre il MA è lateralizzato nell'emisfero destro del cervelletto".


In un tweet del 15 marzo 2021 su questa meta-analisi, Gellersen ha detto:

"Nel MA e nell'invecchiamento sano mostriamo modelli differenziali di perdita di materia grigia nel cervelletto e caratterizziamo il profilo cognitivo delle regioni interessate usando tre mappe funzionali del cervelletto. La caratterizzazione funzionale si è basata su (1) reti principali cerebro-corticali (Buckner Et al., 2011), (2) parcellazione discreta in sotto-regioni funzionali (King et al., 2019), e (3) una mappa continua delle preferenze funzionali in tre gradienti importanti del cervelletto (Guell et al., 2018)".


Gellersen, Guell e Sami scrivono nel riassunto del loro studio:

"[La nostra] meta-analisi evidenzia la vulnerabilità del cervelletto posteriore al MA e all'invecchiamento (Crus I/II, lobule VI), suggerendo che alcuni aspetti della traiettoria verso il declino legato all'età della materia grigia possono essere esacerbati dalla patologia del MA. La stretta lateralizzazione destra dell'atrofia nel MA, rispetto agli effetti bilaterali nell'invecchiamento sano, era sorprendente.

"È necessaria altra ricerca per capire meglio (1) come l'età e la patologia impattano sui processi computazionali cerebellari, (2) come le interazioni cerebellari con altre regioni cerebrali possono influenzare il declino cognitivo, o la sua conservazione, nell'invecchiamento sano e nel MA e (3) il ruolo della perdita di materia grigia cerebellare sub-regionale nella neuropsicologia del MA".

 

 

Clicca per vedere la neuro-immagine clinica (f) di Gellersen, Guell, & Sami, 2021 (CC BY 4.0)

 

 

 


Fonte: Christopher Bergland in Psychology Today (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: vedi tutti sull'articolo originale.

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Fonte:

Pubblicato in (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Copyright: Tutti i diritti di eventuali testi o marchi citati nell'articolo sono riservati ai rispettivi proprietari.

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Cerebellum

Il nostro cervello ha quattro emisferi (non due)

La materia grigia è la 'corteccia' che racchiude sia gli emisferi del cerebro ('corteccia cerebrale') e sia gli emisferi del cervelletto ('corteccia cerebellare').


Sfortunatamente, gli emisferi sinistro e destro del cervelletto sono spesso trascurati dai ricercatori e dal pubblico in generale. È comprensibile che molte persone assumano che il cervello abbia solo due emisferi; la semantica che circonda i riferimenti 'cervello-sinistro e cervello destro' può essere contrastante e potenzialmente confondente.


Ad esempio, il latino cerebrum significa cervello, mentre il latino cerebellum significa 'piccolo cervello'. Pertanto, tecnicamente parlando, gli emisferi sinistro e destro del cerebrum, che sono marcati 'cervello sinistro-cervello destro', potrebbero essere considerati gli unici due emisferi nel cervello (grande). E gli emisferi sinistro e destro del cervelletto potrebbero essere pensati come due emisferi nel 'piccolo cervello'.


Ma in definitiva, quasi tutte le definizioni del 'cervello umano' riconoscono che questo termine ombrello rappresenta l'intero cervello come un unico organo. Come riassume Wikipedia: "Il cervello è costituito dal cerebro, dal tronco cerebrale e dal cervelletto".


In particolare, poiché l'emisfero sinistro del cervelletto funziona in congiunzione con l'emisfero cerebrale destro (e viceversa), per coordinare i movimenti muscolari bilaterali e altre funzioni inter-emisferiche non motorie, la connettività funzionale della materia bianca e la struttura della materia grigia di questi quattro emisferi sono della massima importanza.

 

L'assottigliamento asimmetrico degli emisferi cerebrali sinistro e destro può essere collegato all'Alzheimer

Il mese scorso, ho riferito di uno studio (Roe et al., 2021) pubblicato il 1 febbraio su Nature Communications, che ha trovato che l'assottigliamento asimmetrico della materia grigia negli emisferi sinistro e destro della corteccia cerebrale è accelerato nei pazienti con morbo di Alzheimer (MA). Come spiega James Roe e i coautori:

"L'invecchiamento e il MA sono associati alla progressiva disorganizzazione del cervello. Sebbene l'asimmetria strutturale sia una caratteristica organizzativa della corteccia cerebrale, non sappiamo se la degradazione corticale continuativa correlata all'età e al MA altera l'asimmetria corticale [...] L'asimmetria sembra essere sorta dalla pressione evolutiva per ottimizzare l'efficienza di elaborazione e si pensa in generale che conferisca vantaggi organizzativi che danno benefici alla funzione del cervello.

Qui, mostriamo che l'organizzazione asimmetrica delle regioni corticali di ordine superiore nella giovane età adulta si deteriora con avanzare dell'età. Questo decadimento segue un semplice principio di organizzazione generale: la più spessa delle due cornici omotopiche è la più veloce a assottigliarsi. Questo principio era altamente riproducibile in diverse coorti ed era significativamente accentuato nei pazienti di MA".


In un post auto-narrativo del 19 febbraio 2021 ho filtrato questo studio Roe et al. e altre ricerche recenti su 'cervello sinistro - cervello destro' attraverso una mappa confondente del cervello che ho disegnato nel 2009, che tenta di animare come potrebbero essere rappresentate la struttura (materia grigia) e la connettività funzionale (materia bianca) tra tutti e quattro gli emisferi cerebrali, in una configurazione bidirezionale. Scrissi:

"Nella mia modesta opinione, vale la pena notare che le disfunzioni del cervelletto sono legate anche ad un'elevata variabilità dell'andatura (Schniepp et al., 2011) e c'è un collegamento consolidato tra il cervelletto e il MA (Wegiel et al., 1999; Jacobs et al., 2017; Toniolo et al., 2018)".

 

La perdita di materia grigia accelerata nell'emisfero destro del cervelletto può essere collegata al MA

Ora, una nuova meta-analisi (Gellersen, Guell, & Sami, 2021) guidata da ricercatori dell'Università di Cambridge confronta "la perdita di materia grigia del cervelletto nel MA e quella nell'invecchiamento normale". Oltre a Helena Gellersen e Sabre Sami di Cambridge, a questo studio pubblicato il 4 marzo su NeuroImage: Clinical ha contribuito anche Xavier Guell del MIT e della Harvard Medical School's del MGH. 


È interessante notare che questa meta-analisi suggerisce che il "cervelletto posteriore è influenzato sia dall'invecchiamento sano che dal MA" e che "l'invecchiamento sano ha mostrato una perdita bilaterale di materia grigia, mentre il MA è lateralizzato nell'emisfero destro del cervelletto".


In un tweet del 15 marzo 2021 su questa meta-analisi, Gellersen ha detto:

"Nel MA e nell'invecchiamento sano mostriamo modelli differenziali di perdita di materia grigia nel cervelletto e caratterizziamo il profilo cognitivo delle regioni interessate usando tre mappe funzionali del cervelletto. La caratterizzazione funzionale si è basata su (1) reti principali cerebro-corticali (Buckner Et al., 2011), (2) parcellazione discreta in sotto-regioni funzionali (King et al., 2019), e (3) una mappa continua delle preferenze funzionali in tre gradienti importanti del cervelletto (Guell et al., 2018)".


Gellersen, Guell e Sami scrivono nel riassunto del loro studio:

"[La nostra] meta-analisi evidenzia la vulnerabilità del cervelletto posteriore al MA e all'invecchiamento (Crus I/II, lobule VI), suggerendo che alcuni aspetti della traiettoria verso il declino legato all'età della materia grigia possono essere esacerbati dalla patologia del MA. La stretta lateralizzazione destra dell'atrofia nel MA, rispetto agli effetti bilaterali nell'invecchiamento sano, era sorprendente.

"È necessaria altra ricerca per capire meglio (1) come l'età e la patologia impattano sui processi computazionali cerebellari, (2) come le interazioni cerebellari con altre regioni cerebrali possono influenzare il declino cognitivo, o la sua conservazione, nell'invecchiamento sano e nel MA e (3) il ruolo della perdita di materia grigia cerebellare sub-regionale nella neuropsicologia del MA".

 

 

Clicca per vedere la neuro-immagine clinica (f) di Gellersen, Guell, & Sami, 2021 (CC BY 4.0)

 

 

 


Fonte: Christopher Bergland in Psychology Today (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: vedi tutti sull'articolo originale.

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Il tempo uccide l'affare, dice il proverbio.


E sul fronte del morbo di Alzheimer (MA), per migliorare la cognizione nelle prime fasi della malattia, il più grande affare è il nuovo farmaco aducanumab della Biogen, attualmente in (ri)esame alla Food and Drug Administration (FDA) per essere approvato. Se approvato, l'aducanumab sarebbe il primo farmaco da sempre a rallentare la progressione del MA e il primo farmaco a trattare il lieve deterioramento cognitivo (MCI, mild cognitive impairment).


Il MA di fase iniziale non vede da più di 17 anni l'approvazione di una nuova terapia. Nessuna altra malattia importante, della gravità e della mortalità del MA, è rimasta così a lungo senza sollievo terapeutico incrementale.


George Vradenburg, presidente e cofondatore di UsAgainstAlzheimer’s, ha testimoniato l'autunno scorso a favore dell'aducanumab a un comitato della FDA:

"Se aspettiamo il farmaco perfetto o i dati perfetti, scenderemo ulteriormente nella morsa di questa malattia orribile ... Le persone con gli occhi fissi sull'abisso del MA non meritano di meno. Mi sono unito a questa battaglia contro l'Alzheimer perché la mia famiglia ha sperimentato tre generazioni di MA in 40 anni. A questo ritmo, i miei figli e nipoti sono anch'essi al centro del bersaglio del MA".


George ed io eravamo tra i vari membri del consiglio di amministrazione di UsAgainstAlzheimer's a parlare a quel comitato consultivo. I nostri commenti al comitato e alla FDA sono fatti come sostenitori, caregiver o persone che vivono con la malattia. (Divulgazione completa: UsAgainstAlzheimer's e la sua missione sono supportate da migliaia di individui, istituzioni e aziende, e Biogen è tra questi sostenitori.)


Purtroppo, il comitato consultivo della FDA di novembre ha concluso che non c'erano abbastanza prove a sostegno dell'efficacia del farmaco sperimentale, affermando che non era "ragionevole" considerare la ricerca presentata come "prova primaria dell'aducanumab per trattare il MA". Eppure nelle testimonianze di pazienti di MA davanti al comitato, i partecipanti a un esperimento dell'aducanumab hanno detto che il farmaco della Biogen ha mostrato miglioramenti significativi nel rallentare il declino cognitivo, ed era un raggio di speranza su un orizzonte cupo.


La FDA sta ora considerando le opinioni del comitato riguardo l'aducanumab. Anche se era prevista una decisione all'inizio di marzo, la FDA ha esteso la sua revisione fino a giugno. Potrebbe approvare per l'uso questa nuova terapia che modifica la malattia, oppure potrebbe richiedere ulteriori esperimenti clinici e studi che potrebbero ritardare l'approvazione di diversi anni.


Il tempo uccide l'affare.


In una lettera successiva alla FDA, ardentemente favorevole all'approvazione dell'aducanumab, George Vradenburg e il direttore operativo Russ Paulsen hanno sottolineato che:

"I commenti pubblici dei pazienti e dei sostenitori dei pazienti erano all'unanimità e inequivocabilmente a favore dell'approvazione, e quei commenti non sono stati considerati né esplorati al 100%. Come pazienti e sostenitori dei pazienti, abbiamo visto un processo progettato per illuminare, ma che, invece, si è rivelato confuso e incompleto".


Non c'era confusione in una recente A-list di UsAgainstAlzheimer's che mostra che i pazienti apprezzano in modo preponderante una nuova terapia che rallenta la progressione dei sintomi. Secondo il sondaggio, 8 intervistati su 10 nelle prime fasi del MA

"sperano di avere accesso a un trattamento, se approvato dalla FDA, che consenta loro di avere un anno aggiuntivo senza peggioramento dei sintomi, anche se sono possibili effetti collaterali che richiedono una gestione stretta da parte di un medico".


Gli intervistati dal sondaggio con una diagnosi di MA o di MCI, hanno detto che un anno di ritardo nella progressione dei loro sintomi sarebbe un "dono", una qualità migliore di vita, una possibilità di andare avanti così come sono, e più tempo per viaggiare. E un anno che rallenta la malattia dà loro più speranza e tempo per una svolta. "Un altro farmaco più efficace potrebbe essere disponibile durante quell'anno", ha scritto una persona.


Altri hanno scritto ciò che pensavano che succederebbe se dovessero aspettare diversi anni per una terapia di modifica della malattia; uno di loro ha scritto: "Perdere la capacità di guidare, di prendere decisioni per me stesso, di riuscire a prendermi cura delle mie funzioni quotidiane. Entrambi i miei genitori avevano il MA, quindi capisco il progresso lento".


Quindi cosa puoi fare tu per questo? Puoi scrivere e spingere anche gli altri a scrivere.


Conosco bene la prima linea del MA. La malattia ha preso mio nonno materno, mia madre, e mio zio paterno, e prima della morte di mio padre, anche lui ha avuto la diagnosi di demenza. Ora il MA è venuto a me. Sono stato benedetto per l'opportunità di testimoniare davanti al comitato della FDA a favore dell'aducanumab.


"Abbiamo in questo paese alcune delle menti più brillanti del mondo", ho detto, "ma il MA è un cubo di Rubik per il quale, finora, non c'è soluzione vincente. Il meglio che possiamo fare ora è rallentare il tasso di declino cognitivo e funzionale nelle prime fasi del MA. Eppure, è un passo significativo!

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"Questa potrebbe non essere la 'vittoria-finale' sul fronte medico per quelli che sono in questo viaggio tortuoso. Ma anche se l'aducanumab non è un farmaco perfetto per tutti, è un grande passo avanti che offre più tempo e una vera speranza a molti con questa malattia".


E così, oggi prego che si continui a far sentire voci forti e solidali perché la FDA approvi l'aducanumab. C'è troppo in ballo. Non lasciamo che il tempo uccida questo affare.

 

 

 


Fonte: Greg O'Brien in Psychology Today (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Copyright: Tutti i diritti di testi o marchi inclusi nell'articolo sono riservati ai rispettivi proprietari.

Liberatoria: Questo articolo non propone terapie o diete; per qualsiasi modifica della propria cura o regime alimentare si consiglia di rivolgersi a un medico o dietologo. Il contenuto non rappresenta necessariamente l'opinione dell'Associazione Alzheimer OdV di Riese Pio X ma solo quella dell'autore citato come "Fonte". I siti terzi raggiungibili da eventuali collegamenti contenuti nell'articolo e/o dagli annunci pubblicitari sono completamente estranei all'Associazione, il loro accesso e uso è a discrezione dell'utente. Liberatoria completa qui.

Nota: L'articolo potrebbe riferire risultati di ricerche mediche, psicologiche, scientifiche o sportive che riflettono lo stato delle conoscenze raggiunte fino alla data della loro pubblicazione.


 

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Fonte:

Pubblicato in (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.

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Il tempo uccide l'affare, dice il proverbio.


E sul fronte del morbo di Alzheimer (MA), per migliorare la cognizione nelle prime fasi della malattia, il più grande affare è il nuovo farmaco aducanumab della Biogen, attualmente in (ri)esame alla Food and Drug Administration (FDA) per essere approvato. Se approvato, l'aducanumab sarebbe il primo farmaco da sempre a rallentare la progressione del MA e il primo farmaco a trattare il lieve deterioramento cognitivo (MCI, mild cognitive impairment).


Il MA di fase iniziale non vede da più di 17 anni l'approvazione di una nuova terapia. Nessuna altra malattia importante, della gravità e della mortalità del MA, è rimasta così a lungo senza sollievo terapeutico incrementale.


George Vradenburg, presidente e cofondatore di UsAgainstAlzheimer’s, ha testimoniato l'autunno scorso a favore dell'aducanumab a un comitato della FDA:

"Se aspettiamo il farmaco perfetto o i dati perfetti, scenderemo ulteriormente nella morsa di questa malattia orribile ... Le persone con gli occhi fissi sull'abisso del MA non meritano di meno. Mi sono unito a questa battaglia contro l'Alzheimer perché la mia famiglia ha sperimentato tre generazioni di MA in 40 anni. A questo ritmo, i miei figli e nipoti sono anch'essi al centro del bersaglio del MA".


George ed io eravamo tra i vari membri del consiglio di amministrazione di UsAgainstAlzheimer's a parlare a quel comitato consultivo. I nostri commenti al comitato e alla FDA sono fatti come sostenitori, caregiver o persone che vivono con la malattia. (Divulgazione completa: UsAgainstAlzheimer's e la sua missione sono supportate da migliaia di individui, istituzioni e aziende, e Biogen è tra questi sostenitori.)


Purtroppo, il comitato consultivo della FDA di novembre ha concluso che non c'erano abbastanza prove a sostegno dell'efficacia del farmaco sperimentale, affermando che non era "ragionevole" considerare la ricerca presentata come "prova primaria dell'aducanumab per trattare il MA". Eppure nelle testimonianze di pazienti di MA davanti al comitato, i partecipanti a un esperimento dell'aducanumab hanno detto che il farmaco della Biogen ha mostrato miglioramenti significativi nel rallentare il declino cognitivo, ed era un raggio di speranza su un orizzonte cupo.


La FDA sta ora considerando le opinioni del comitato riguardo l'aducanumab. Anche se era prevista una decisione all'inizio di marzo, la FDA ha esteso la sua revisione fino a giugno. Potrebbe approvare per l'uso questa nuova terapia che modifica la malattia, oppure potrebbe richiedere ulteriori esperimenti clinici e studi che potrebbero ritardare l'approvazione di diversi anni.


Il tempo uccide l'affare.


In una lettera successiva alla FDA, ardentemente favorevole all'approvazione dell'aducanumab, George Vradenburg e il direttore operativo Russ Paulsen hanno sottolineato che:

"I commenti pubblici dei pazienti e dei sostenitori dei pazienti erano all'unanimità e inequivocabilmente a favore dell'approvazione, e quei commenti non sono stati considerati né esplorati al 100%. Come pazienti e sostenitori dei pazienti, abbiamo visto un processo progettato per illuminare, ma che, invece, si è rivelato confuso e incompleto".


Non c'era confusione in una recente A-list di UsAgainstAlzheimer's che mostra che i pazienti apprezzano in modo preponderante una nuova terapia che rallenta la progressione dei sintomi. Secondo il sondaggio, 8 intervistati su 10 nelle prime fasi del MA

"sperano di avere accesso a un trattamento, se approvato dalla FDA, che consenta loro di avere un anno aggiuntivo senza peggioramento dei sintomi, anche se sono possibili effetti collaterali che richiedono una gestione stretta da parte di un medico".


Gli intervistati dal sondaggio con una diagnosi di MA o di MCI, hanno detto che un anno di ritardo nella progressione dei loro sintomi sarebbe un "dono", una qualità migliore di vita, una possibilità di andare avanti così come sono, e più tempo per viaggiare. E un anno che rallenta la malattia dà loro più speranza e tempo per una svolta. "Un altro farmaco più efficace potrebbe essere disponibile durante quell'anno", ha scritto una persona.


Altri hanno scritto ciò che pensavano che succederebbe se dovessero aspettare diversi anni per una terapia di modifica della malattia; uno di loro ha scritto: "Perdere la capacità di guidare, di prendere decisioni per me stesso, di riuscire a prendermi cura delle mie funzioni quotidiane. Entrambi i miei genitori avevano il MA, quindi capisco il progresso lento".


Quindi cosa puoi fare tu per questo? Puoi scrivere e spingere anche gli altri a scrivere.


Conosco bene la prima linea del MA. La malattia ha preso mio nonno materno, mia madre, e mio zio paterno, e prima della morte di mio padre, anche lui ha avuto la diagnosi di demenza. Ora il MA è venuto a me. Sono stato benedetto per l'opportunità di testimoniare davanti al comitato della FDA a favore dell'aducanumab.


"Abbiamo in questo paese alcune delle menti più brillanti del mondo", ho detto, "ma il MA è un cubo di Rubik per il quale, finora, non c'è soluzione vincente. Il meglio che possiamo fare ora è rallentare il tasso di declino cognitivo e funzionale nelle prime fasi del MA. Eppure, è un passo significativo!

"Il farmaco di Biogen, l'aducanumab, non mi aiuterà nel mio stadio medio di questo viaggio, ma a chi è nelle prime fasi della malattia potrebbe dare speranza dove finora non ce n'è stata nemmeno una parvenza di essa. Offre la possibilità di preservare l'indipendenza per un periodo più lungo ...

"Questa potrebbe non essere la 'vittoria-finale' sul fronte medico per quelli che sono in questo viaggio tortuoso. Ma anche se l'aducanumab non è un farmaco perfetto per tutti, è un grande passo avanti che offre più tempo e una vera speranza a molti con questa malattia".


E così, oggi prego che si continui a far sentire voci forti e solidali perché la FDA approvi l'aducanumab. C'è troppo in ballo. Non lasciamo che il tempo uccida questo affare.

 

 

 


Fonte: Greg O'Brien in Psychology Today (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Copyright: Tutti i diritti di testi o marchi inclusi nell'articolo sono riservati ai rispettivi proprietari.

Liberatoria: Questo articolo non propone terapie o diete; per qualsiasi modifica della propria cura o regime alimentare si consiglia di rivolgersi a un medico o dietologo. Il contenuto non rappresenta necessariamente l'opinione dell'Associazione Alzheimer OdV di Riese Pio X ma solo quella dell'autore citato come "Fonte". I siti terzi raggiungibili da eventuali collegamenti contenuti nell'articolo e/o dagli annunci pubblicitari sono completamente estranei all'Associazione, il loro accesso e uso è a discrezione dell'utente. Liberatoria completa qui.

Nota: L'articolo potrebbe riferire risultati di ricerche mediche, psicologiche, scientifiche o sportive che riflettono lo stato delle conoscenze raggiunte fino alla data della loro pubblicazione.


 

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OCTA images of retinal capillaries

Alcuni dicono che gli occhi sono la finestra dell'anima, ma nuove scoperte di ricercatori del Wilmer Eye Institute della Johns Hopkins University suggeriscono che possono offrire anche intuizioni sulla mente. Il loro nuovo studio prova-di-principio mostra che una tecnica di scansione che misura il flusso sanguigno nella parte posteriore interna dell'occhio può costituire un modo non invasivo per rilevare il morbo di Alzheimer (MA) a insorgenza precoce.


I risultati del piccolo studio sono pubblicati come articolo di copertina nell'edizione del 4 marzo 2021 della rivista Alzheimer’s & Dementia: Diagnosis, Assessment & Disease Monitoringe.


"Abbiamo deciso di indagare sull'idea che i cambiamenti nei capillari retinici sul retro dell'occhio possono rivelare i cambiamenti nel cervello, che sono altrimenti non rilevabili, e che sono presenti prima che la malattia sia diagnosticata", afferma l'autore senior dello studio Amir Kashani MD/PhD, professore associato di oftalmologia alla Johns Hopkins University.


Lo studio ha coinvolto 13 persone con una forma rara e geneticamente ereditata di MA a insorgenza precoce, contrassegnata da mutazioni identificate in tre geni. Questa forma familiare della malattia colpisce circa l'1% di tutti i pazienti con la condizione.


Attraverso una tecnologia di scansione chiamata angiografia con tomografia ottica a coerenza di fase (OCTA, optical coherence tomography angiography), i ricercatori hanno acquisito immagini dei vasi sanguigni nella parte posteriore degli occhi dei partecipanti allo studio, che erano con e senza la mutazione che porta alla forma familiare del MA. Hanno anche catalogato la fase della malattia per le persone con MA e le capacità cognitive di entrambi i gruppi.


Kashani e il suo team hanno scoperto che il flusso sanguigno anormale che attraversa i vasi capillari più piccoli sul retro dell'occhio si correla con lo stato delle mutazioni dei soggetti a rischio per la forma familiare del MA.


I pazienti con le mutazioni che causano il MA senza segni di malattia avevano un flusso sanguigno anormalmente alto ed eterogeneo nei capillari retinici. I ricercatori ritengono che questo possa essere un segno dei primi cambiamenti infiammatori coinvolti nella patogenesi della malattia.


I ricercatori dicono che questi dati supportano la convinzione che i cambiamenti negli occhi possono mostrare i primi segni della malattia cerebrale prima che siano presenti sintomi. Con ulteriori evidenze da studi più grandi futuri, ritengono che il metodo possa offrire ai medici uno strumento per la diagnosi precoce e consentire interventi per rallentare il declino cognitivo dei pazienti.

 

 

 


Fonte: Johns Hopkins University (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: Maxwell Singer, John Ringman, Zhongdi Chu, Xiao Zhou, Xuejuan Jiang, Anoush Shahidzadeh, Ruikang Wang, Amir Kashani. Abnormal retinal capillary blood flow in autosomal dominant Alzheimer's disease. Alzheimer’s & Dementia: Diagnosis, Assessment & Disease Monitoring, 4 Mar 2021, DOI

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OCTA images of retinal capillaries

Alcuni dicono che gli occhi sono la finestra dell'anima, ma nuove scoperte di ricercatori del Wilmer Eye Institute della Johns Hopkins University suggeriscono che possono offrire anche intuizioni sulla mente. Il loro nuovo studio prova-di-principio mostra che una tecnica di scansione che misura il flusso sanguigno nella parte posteriore interna dell'occhio può costituire un modo non invasivo per rilevare il morbo di Alzheimer (MA) a insorgenza precoce.


I risultati del piccolo studio sono pubblicati come articolo di copertina nell'edizione del 4 marzo 2021 della rivista Alzheimer’s & Dementia: Diagnosis, Assessment & Disease Monitoringe.


"Abbiamo deciso di indagare sull'idea che i cambiamenti nei capillari retinici sul retro dell'occhio possono rivelare i cambiamenti nel cervello, che sono altrimenti non rilevabili, e che sono presenti prima che la malattia sia diagnosticata", afferma l'autore senior dello studio Amir Kashani MD/PhD, professore associato di oftalmologia alla Johns Hopkins University.


Lo studio ha coinvolto 13 persone con una forma rara e geneticamente ereditata di MA a insorgenza precoce, contrassegnata da mutazioni identificate in tre geni. Questa forma familiare della malattia colpisce circa l'1% di tutti i pazienti con la condizione.


Attraverso una tecnologia di scansione chiamata angiografia con tomografia ottica a coerenza di fase (OCTA, optical coherence tomography angiography), i ricercatori hanno acquisito immagini dei vasi sanguigni nella parte posteriore degli occhi dei partecipanti allo studio, che erano con e senza la mutazione che porta alla forma familiare del MA. Hanno anche catalogato la fase della malattia per le persone con MA e le capacità cognitive di entrambi i gruppi.


Kashani e il suo team hanno scoperto che il flusso sanguigno anormale che attraversa i vasi capillari più piccoli sul retro dell'occhio si correla con lo stato delle mutazioni dei soggetti a rischio per la forma familiare del MA.


I pazienti con le mutazioni che causano il MA senza segni di malattia avevano un flusso sanguigno anormalmente alto ed eterogeneo nei capillari retinici. I ricercatori ritengono che questo possa essere un segno dei primi cambiamenti infiammatori coinvolti nella patogenesi della malattia.


I ricercatori dicono che questi dati supportano la convinzione che i cambiamenti negli occhi possono mostrare i primi segni della malattia cerebrale prima che siano presenti sintomi. Con ulteriori evidenze da studi più grandi futuri, ritengono che il metodo possa offrire ai medici uno strumento per la diagnosi precoce e consentire interventi per rallentare il declino cognitivo dei pazienti.

 

 

 


Fonte: Johns Hopkins University (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: Maxwell Singer, John Ringman, Zhongdi Chu, Xiao Zhou, Xuejuan Jiang, Anoush Shahidzadeh, Ruikang Wang, Amir Kashani. Abnormal retinal capillary blood flow in autosomal dominant Alzheimer's disease. Alzheimer’s & Dementia: Diagnosis, Assessment & Disease Monitoring, 4 Mar 2021, DOI

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"Un'altra domanda", è ora l'ultima chance del figlio o della figlia di un paziente al quale ho appena diagnosticato la demenza. Arriva proprio mentre stanno per uscire, quasi un ripensamento.


Di solito abbiamo trascorso l'ultima ora a dipingere una foto della strada da percorrere per la famiglia: il trauma di passare dal ruolo di figlio adulto a quello di chi si prende cura, una successione di perdite, e in definitiva la lenta sparizione della persona che fino a quel momento conoscevano. In passato, la famiglia stordita sarebbe stata congedata in silenzio, con pensieri cupi. Ma ora tendiamo a indulgere sulla porta, ad aprire una nuova conversazione. "Cosa posso fare per non subire questo?".


È difficile esagerare l'opportunità per la ricerca sulla demenza che è insita in questa domanda ripetuta. I ricercatori stanno da tempo riconoscendo il valore del trattamento della demenza nella fase 'preclinica'. Ma è difficile condurre studi clinici sulle persone con pochi sintomi, o nessuno. Per fare ciò, hai bisogno di test affidabili per rilevare la demenza preclinica e devi monitorare gli effetti dei trattamenti testati.


Forse la sfida primaria, tuttavia, rimane la scarsità di ricerca e di infrastruttura clinica per rilevare, tenere traccia e indagare sulla progressione della malattia dalle prime fasi. Anche i sistemi sanitari che sono altamente centralizzati, come il NHS del Regno Unito, semplicemente non sono orientati per rilevare la demenza pre-sintomatica, non parliamo nemmeno di trattarla.


Registri di ricerca o coorti pronte per esperimenti, come il registro Great Minds, che abbiamo sviluppato alla Dementias Platform UK, hanno cercato di affrontare questa carenza. Questi registri usano la genetica e i dati rilevanti del rischio di demenza, come il diabete e l'ipertensione, raccolti in molti anni, per raggiungere le persone che hanno maggiori probabilità di beneficiare dei trattamenti destinati alla demenza preclinica.


Eppure i volontari che costituiscono questi registri non sono rappresentativi di quelli che sviluppano la malattia. E i registri sono troppo piccoli per il compito. Dobbiamo pensare più in grande.

 

Pensare più in grande

Prendi i figli adulti dei miei pazienti, persone alla fine della mezza età che sono abituate a essere attive nella gestione della loro salute fisica, attraverso la ricerca di informazioni pertinenti sulla ricerca e mantenendo uno stile di vita sano. Di solito sono esperti nell'uso di tecnologie digitali come smartphone e dispositivi portabili per tracciare i loro fattori di rischio. Sanno come scovare le ultime ricerche e sono abituati a sfidare il proprio medico sulla logica per iniziare un nuovo trattamento.


È naturale che si chiedano perché, se possono prendersi cura della salute fisica, non dovrebbero essere in grado di prendersi cura della salute del loro cervello. E se è possibile per la salute del cervello, non sarebbero i partner ideali della nostra sfida per dimostrare l'efficacia dei potenziali trattamenti per la malattia preclinica?


Credo che quattro sviluppi chiave negli ultimi dieci anni rendano questa alleanza un'opzione realistica già adesso:

  1. Migliore comprensione dei fattori di rischio. L'insieme di evidenze da molti studi di alta qualità ci ha dato una solida comprensione dei fattori di rischio della demenza. La combinazione di questi fattori di rischio può essere molto utile per individuare le persone con rischio alto di essere nella demenza preclinica, dandoci la possibilità di rilevare il 'paziente giusto'.

    In uno studio recente, abbiamo scoperto il punto che marca una crescita rapida dell'accumulo delle proteine ​​dell'Alzheimer, dandoci il momento preciso per l'azione. Combinare questa conoscenza potrebbe aiutarci a dire alle persone se e quando potrebbero sviluppare la demenza, una cosa attualmente non disponibile.

  2. Sviluppo rapido delle tecnologie digitali. Abbiamo visto una rapida espansione di tecnologie digitali che possono caratterizzare la cognizione e la memoria in grande dettaglio, anche attraverso smartphone e altri dispositivi digitali per eseguire test di memoria.

    Tracciare l'uso passivo di questi dispositivi (la velocità con cui troviamo le parole nei messaggi o con cui leggiamo articoli, le caratteristiche del parlato durante le telefonate) potrebbe aiutarci a caratterizzare la cognizione sul lungo periodo. Ciò ha il vantaggio doppio di identificare quelli sulla cuspide di diventare sintomatici, e di ridurre il numero di persone richieste dagli studi clinici, usando dati a lungo termine per scoprire effetti benefici di tutti i nuovi trattamenti testati. Effetti che altrimenti potrebbero essere persi nel rumore.

    Ulteriori sviluppi vanno oltre il semplice tracciamento della cognizione e tengono l'utente in controllo dei suoi fattori di rischio modificabili con il supporto di istruttori. I progressi di queste tecnologie digitali, se combinati con il fatto che sempre più persone nella società e nei vari gruppi di età hanno accesso a questi dispositivi, forniscono un'opportunità importante per tenere traccia delle capacità di memoria e per aiutare le persone a gestire la salute del cervello attuando i cambiamenti dello stile di vita che puntano i loro fattori di rischio per la demenza. Ciò introdurrebbe in modo cruciale diversità nella ricerca, democratizzazione dell'accesso alle ultime opportunità ben oltre il gruppo non rappresentativo dei tipici volontari di ricerca.

  3. Il boom dei biomarcatori del sangue. Quella che era fantascienza dieci anni fa sta ora diventando rapidamente una realtà. Ora possiamo individuare gli inizi della demenza e differenziare le cause con un semplice esame del sangue. Il test ha il vantaggio di essere sia altamente specifico (la capacità di determinare se una persona non ha la malattia), che non invasivo.

  4. Collegamento e condivisione dei dati. L'ultimo componente è riconoscere l'importanza dei dati collegati e dell'accesso rapido ai dati da parte dei ricercatori, per accelerare la ricerca con progetti come il Dementias Platform UK Data Portal e l'Alzheimer’s Disease Data Initiative Workbench. Questa tecnologia rende possibile una combinazione tra ricerca e dati clinici per scoprire gli indicatori nascosti della demenza preclinica sulla scala richiesta.


I progressi di cui sopra offrono un'opportunità unica di stabilire l'infrastruttura di ricerca necessaria per affrontare la demenza preclinica. E così torniamo alla componente critica in tutto questo: la forza che sta dietro la domanda dei figli dei miei pazienti. Questo è il loro momento per lasciare il segno sulla ricerca di demenza, ed è il nostro dovere come medici e scienziati di aiutarli a farlo.

 

 

 


Fonte: Ivan Koychev, ricercatore clinico senior in demenza, University of Oxford

Pubblicato su The Conversation (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

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Fonte:

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Copyright: Tutti i diritti di eventuali testi o marchi citati nell'articolo sono riservati ai rispettivi proprietari.

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"Un'altra domanda", è ora l'ultima chance del figlio o della figlia di un paziente al quale ho appena diagnosticato la demenza. Arriva proprio mentre stanno per uscire, quasi un ripensamento.


Di solito abbiamo trascorso l'ultima ora a dipingere una foto della strada da percorrere per la famiglia: il trauma di passare dal ruolo di figlio adulto a quello di chi si prende cura, una successione di perdite, e in definitiva la lenta sparizione della persona che fino a quel momento conoscevano. In passato, la famiglia stordita sarebbe stata congedata in silenzio, con pensieri cupi. Ma ora tendiamo a indulgere sulla porta, ad aprire una nuova conversazione. "Cosa posso fare per non subire questo?".


È difficile esagerare l'opportunità per la ricerca sulla demenza che è insita in questa domanda ripetuta. I ricercatori stanno da tempo riconoscendo il valore del trattamento della demenza nella fase 'preclinica'. Ma è difficile condurre studi clinici sulle persone con pochi sintomi, o nessuno. Per fare ciò, hai bisogno di test affidabili per rilevare la demenza preclinica e devi monitorare gli effetti dei trattamenti testati.


Forse la sfida primaria, tuttavia, rimane la scarsità di ricerca e di infrastruttura clinica per rilevare, tenere traccia e indagare sulla progressione della malattia dalle prime fasi. Anche i sistemi sanitari che sono altamente centralizzati, come il NHS del Regno Unito, semplicemente non sono orientati per rilevare la demenza pre-sintomatica, non parliamo nemmeno di trattarla.


Registri di ricerca o coorti pronte per esperimenti, come il registro Great Minds, che abbiamo sviluppato alla Dementias Platform UK, hanno cercato di affrontare questa carenza. Questi registri usano la genetica e i dati rilevanti del rischio di demenza, come il diabete e l'ipertensione, raccolti in molti anni, per raggiungere le persone che hanno maggiori probabilità di beneficiare dei trattamenti destinati alla demenza preclinica.


Eppure i volontari che costituiscono questi registri non sono rappresentativi di quelli che sviluppano la malattia. E i registri sono troppo piccoli per il compito. Dobbiamo pensare più in grande.

 

Pensare più in grande

Prendi i figli adulti dei miei pazienti, persone alla fine della mezza età che sono abituate a essere attive nella gestione della loro salute fisica, attraverso la ricerca di informazioni pertinenti sulla ricerca e mantenendo uno stile di vita sano. Di solito sono esperti nell'uso di tecnologie digitali come smartphone e dispositivi portabili per tracciare i loro fattori di rischio. Sanno come scovare le ultime ricerche e sono abituati a sfidare il proprio medico sulla logica per iniziare un nuovo trattamento.


È naturale che si chiedano perché, se possono prendersi cura della salute fisica, non dovrebbero essere in grado di prendersi cura della salute del loro cervello. E se è possibile per la salute del cervello, non sarebbero i partner ideali della nostra sfida per dimostrare l'efficacia dei potenziali trattamenti per la malattia preclinica?


Credo che quattro sviluppi chiave negli ultimi dieci anni rendano questa alleanza un'opzione realistica già adesso:

  1. Migliore comprensione dei fattori di rischio. L'insieme di evidenze da molti studi di alta qualità ci ha dato una solida comprensione dei fattori di rischio della demenza. La combinazione di questi fattori di rischio può essere molto utile per individuare le persone con rischio alto di essere nella demenza preclinica, dandoci la possibilità di rilevare il 'paziente giusto'.

    In uno studio recente, abbiamo scoperto il punto che marca una crescita rapida dell'accumulo delle proteine ​​dell'Alzheimer, dandoci il momento preciso per l'azione. Combinare questa conoscenza potrebbe aiutarci a dire alle persone se e quando potrebbero sviluppare la demenza, una cosa attualmente non disponibile.

  2. Sviluppo rapido delle tecnologie digitali. Abbiamo visto una rapida espansione di tecnologie digitali che possono caratterizzare la cognizione e la memoria in grande dettaglio, anche attraverso smartphone e altri dispositivi digitali per eseguire test di memoria.

    Tracciare l'uso passivo di questi dispositivi (la velocità con cui troviamo le parole nei messaggi o con cui leggiamo articoli, le caratteristiche del parlato durante le telefonate) potrebbe aiutarci a caratterizzare la cognizione sul lungo periodo. Ciò ha il vantaggio doppio di identificare quelli sulla cuspide di diventare sintomatici, e di ridurre il numero di persone richieste dagli studi clinici, usando dati a lungo termine per scoprire effetti benefici di tutti i nuovi trattamenti testati. Effetti che altrimenti potrebbero essere persi nel rumore.

    Ulteriori sviluppi vanno oltre il semplice tracciamento della cognizione e tengono l'utente in controllo dei suoi fattori di rischio modificabili con il supporto di istruttori. I progressi di queste tecnologie digitali, se combinati con il fatto che sempre più persone nella società e nei vari gruppi di età hanno accesso a questi dispositivi, forniscono un'opportunità importante per tenere traccia delle capacità di memoria e per aiutare le persone a gestire la salute del cervello attuando i cambiamenti dello stile di vita che puntano i loro fattori di rischio per la demenza. Ciò introdurrebbe in modo cruciale diversità nella ricerca, democratizzazione dell'accesso alle ultime opportunità ben oltre il gruppo non rappresentativo dei tipici volontari di ricerca.

  3. Il boom dei biomarcatori del sangue. Quella che era fantascienza dieci anni fa sta ora diventando rapidamente una realtà. Ora possiamo individuare gli inizi della demenza e differenziare le cause con un semplice esame del sangue. Il test ha il vantaggio di essere sia altamente specifico (la capacità di determinare se una persona non ha la malattia), che non invasivo.

  4. Collegamento e condivisione dei dati. L'ultimo componente è riconoscere l'importanza dei dati collegati e dell'accesso rapido ai dati da parte dei ricercatori, per accelerare la ricerca con progetti come il Dementias Platform UK Data Portal e l'Alzheimer’s Disease Data Initiative Workbench. Questa tecnologia rende possibile una combinazione tra ricerca e dati clinici per scoprire gli indicatori nascosti della demenza preclinica sulla scala richiesta.


I progressi di cui sopra offrono un'opportunità unica di stabilire l'infrastruttura di ricerca necessaria per affrontare la demenza preclinica. E così torniamo alla componente critica in tutto questo: la forza che sta dietro la domanda dei figli dei miei pazienti. Questo è il loro momento per lasciare il segno sulla ricerca di demenza, ed è il nostro dovere come medici e scienziati di aiutarli a farlo.

 

 

 


Fonte: Ivan Koychev, ricercatore clinico senior in demenza, University of Oxford

Pubblicato su The Conversation (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Copyright: Tutti i diritti di testi o marchi inclusi nell'articolo sono riservati ai rispettivi proprietari.

Liberatoria: Questo articolo non propone terapie o diete; per qualsiasi modifica della propria cura o regime alimentare si consiglia di rivolgersi a un medico o dietologo. Il contenuto non rappresenta necessariamente l'opinione dell'Associazione Alzheimer OdV di Riese Pio X ma solo quella dell'autore citato come "Fonte". I siti terzi raggiungibili da eventuali collegamenti contenuti nell'articolo e/o dagli annunci pubblicitari sono completamente estranei all'Associazione, il loro accesso e uso è a discrezione dell'utente. Liberatoria completa qui.

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Cara Carol: Mia madre, di 78 anni, vive con noi. Ha l'Alzheimer e andava bene fino a poco tempo fa, ma ora è peggiorata e mi segue per tutta la casa. Non può sopportare di perdermi di vista, anche quando devo andare in bagno.

So che non potrò gestire questo tanto a lungo. Mio marito è bravo con lei e resta seduto con lei per darmi un po' di pace, ma questo non aiuta. Lei vuole comunque avermi a portata di vista. Hai qualche suggerimento? - KJ.

 

Cara KJ: Capisco che questo sia triste e frustrante per te. La sua necessità di vederti non è insolita nello stadio avanzato dell'Alzheimer, ma quando succede, qualsiasi caregiver lo trova estenuante.


Il suo comportamento è generalmente noto come shadowing (seguire come un'ombra), e la maggior parte degli esperti ritiene che derivi dall'ansia o dalla paura. Come per la maggior parte delle cose relative alla demenza, questo ha senso se ci mettiamo nel posto della persona che vive con la demenza.


Pensa a come ti sentiresti se l'individuo che rappresenta la tua sicurezza scomparisse dalla vista, e quindi per te sarebbe veramente sparito, e tu saresti solo. Probabilmente lo cercheresti.


Ecco dei suggerimenti miei e di altri esperti:

  1. Prova a far partire un film confortante che le piace o a far sentire musica che potrebbe impegnarla per un po'. Alcuni caregiver hanno registrato la loro voce o anche un video da sincronizzare con la TV, che li mostra mentre parlano con la persona che ha bisogno di comfort.

  2. In alcuni casi aiuta lasciare la persona con un compito familiare distraente che può gestire da sola. Piegare asciugamani viene spesso suggerito perché è sicuro e ripetitivo. Anche riordinare oggetti domestici è una distrazione comune. L'importante è evitare tutto ciò che potrebbe diventare frustrante, poiché ciò aggiunge solo ansia e paura.

  3. Convalidare i suoi sentimenti dicendo: "So che quando non puoi vedermi o sentirmi ti senti ansiosa e forse anche un po' impaurita. Posso capirlo, ma ci sono alcune cose che devo fare. Pensi che per me potresti sederti proprio qui sulla tua sedia e ascoltare musica per qualche minuto? Una volta che queste canzoni sono finite, dovrei essere di ritorno". È poco probabile che ricordi le tue parole, ma la tua attenzione può avere un effetto calmante.

  4. Dillo al dottore. L'opportunità di dare medicine a qualcuno che ha l'Alzheimer e lo shadowing è controversa, ma ci sono casi in cui l'ansia e la paura sono un fattore importante nella vita della persona e può essere utile dare una bassa dose di farmaci anti-ansia. Tutti i farmaci devono essere valutati a fronte dell'aumento del rischio di cadute e anche di mente più nebbiosa.


KJ, mi preme sottolineare che, pur se nessuna di queste azioni ti dà la garanzia di risolvere la necessità della mamma di cercarti, la maggior parte di loro ha aiutato ad alleviare il problema alcune volte.


Ricorda anche che è probabile che questa fase della demenza passerà, anche se ci saranno altre sfide insite nel peggioramento della malattia della mamma.

 

 

 


Fonte: Carol Bradley Bursack in InForum (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

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Fonte:

Pubblicato in (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.

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Cara Carol: Mia madre, di 78 anni, vive con noi. Ha l'Alzheimer e andava bene fino a poco tempo fa, ma ora è peggiorata e mi segue per tutta la casa. Non può sopportare di perdermi di vista, anche quando devo andare in bagno.

So che non potrò gestire questo tanto a lungo. Mio marito è bravo con lei e resta seduto con lei per darmi un po' di pace, ma questo non aiuta. Lei vuole comunque avermi a portata di vista. Hai qualche suggerimento? - KJ.

 

Cara KJ: Capisco che questo sia triste e frustrante per te. La sua necessità di vederti non è insolita nello stadio avanzato dell'Alzheimer, ma quando succede, qualsiasi caregiver lo trova estenuante.


Il suo comportamento è generalmente noto come shadowing (seguire come un'ombra), e la maggior parte degli esperti ritiene che derivi dall'ansia o dalla paura. Come per la maggior parte delle cose relative alla demenza, questo ha senso se ci mettiamo nel posto della persona che vive con la demenza.


Pensa a come ti sentiresti se l'individuo che rappresenta la tua sicurezza scomparisse dalla vista, e quindi per te sarebbe veramente sparito, e tu saresti solo. Probabilmente lo cercheresti.


Ecco dei suggerimenti miei e di altri esperti:

  1. Prova a far partire un film confortante che le piace o a far sentire musica che potrebbe impegnarla per un po'. Alcuni caregiver hanno registrato la loro voce o anche un video da sincronizzare con la TV, che li mostra mentre parlano con la persona che ha bisogno di comfort.

  2. In alcuni casi aiuta lasciare la persona con un compito familiare distraente che può gestire da sola. Piegare asciugamani viene spesso suggerito perché è sicuro e ripetitivo. Anche riordinare oggetti domestici è una distrazione comune. L'importante è evitare tutto ciò che potrebbe diventare frustrante, poiché ciò aggiunge solo ansia e paura.

  3. Convalidare i suoi sentimenti dicendo: "So che quando non puoi vedermi o sentirmi ti senti ansiosa e forse anche un po' impaurita. Posso capirlo, ma ci sono alcune cose che devo fare. Pensi che per me potresti sederti proprio qui sulla tua sedia e ascoltare musica per qualche minuto? Una volta che queste canzoni sono finite, dovrei essere di ritorno". È poco probabile che ricordi le tue parole, ma la tua attenzione può avere un effetto calmante.

  4. Dillo al dottore. L'opportunità di dare medicine a qualcuno che ha l'Alzheimer e lo shadowing è controversa, ma ci sono casi in cui l'ansia e la paura sono un fattore importante nella vita della persona e può essere utile dare una bassa dose di farmaci anti-ansia. Tutti i farmaci devono essere valutati a fronte dell'aumento del rischio di cadute e anche di mente più nebbiosa.


KJ, mi preme sottolineare che, pur se nessuna di queste azioni ti dà la garanzia di risolvere la necessità della mamma di cercarti, la maggior parte di loro ha aiutato ad alleviare il problema alcune volte.


Ricorda anche che è probabile che questa fase della demenza passerà, anche se ci saranno altre sfide insite nel peggioramento della malattia della mamma.

 

 

 


Fonte: Carol Bradley Bursack in InForum (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

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Studio della Osaka City University ha scoperto che il subicolo nel cervello aiuta a instradare verso le aree a valle le informazioni associate alla navigazione ricevute dall'ippocampo.

L'ippocampo è la parte del cervello che ha a che fare con le informazioni associate alla navigazione e alla memoria spaziale. Ad esempio, stai guidando e nonostante l'ambiente in continuo cambiamento, con diverse auto che vanno a velocità variabili, i sali-e-scendi dalle rampe, le distrazioni dei cartelloni pubblicitari, ecc., tu regoli la tua velocità, dai solo un'occhiata veloce ai cartelloni pubblicitari e ti muovi nelle strade in modo scorrevole e tempestivo.


Questo è il tuo ippocampo al lavoro. Prende gli stimoli in ingresso (un ambiente in continua evoluzione) e aiuta a trasformarli in un risultato elaborato, usando la memoria di una mappa stradale per muoverti in sicurezza dove stai andando. Tuttavia, si sa poco del modo in cui l'ippocampo distribuisce le informazioni ad altre regioni cerebrali, determinando il comportamento conseguente.


Un team di ricerca guidato dal docente Takuma Kitanishi e dal prof. Kenji Mizuseki del Dipartimento di Fisiologia della Osaka City University, ha chiarito per la prima volta che le informazioni spaziali ricevute dall'ippocampo sono ulteriormente dirette a valle da una regione del cervello chiamata [[subicolo]].


"L'ippocampo elabora le informazioni con cui tutti abbiamo familiarità nel quotidiano, dal pendolarismo al lavoro, al vedere la nonna", afferma Kitanishi, "tuttavia, i metodi comunemente usati per misurare l'attività cerebrale non ci hanno permesso di sapere a quale regione del cervello l'ippocampo trasmette informazioni".


Il team ha ideato un metodo per tracciare questo flusso infra-regionale di attività neuronale. Combinando la registrazione di attività neuronali su larga scala e la stimolazione ottica multi-sito, hanno misurato l'attività cerebrale di ratti che si muovevano liberamente. Hanno scoperto che, mentre l'ippocampo riceve e trasmette una vasta gamma di informazioni, il subicolo instrada le informazioni ereditate dall'ippocampo, resistendo al rumore. Pensiamo al subicolo come l'ufficio di smistamento locale della posta dell'ippocampo.


"Abbiamo trovato che le informazioni su 'velocità' e 'traiettoria' sono trasmesse selettivamente alle regioni della corteccia retrospleniale e al nucleo accumbens, rispettivamente, del cervello, mentre le informazioni di 'luogo' sono distribuite ugualmente tra quattro regioni: il nucleo accumbens, il talamo anteroventrale, il corpo mammillare e la corteccia retrospleniale", afferma Kenji Mizueki.


Il team ha anche osservato che le onde cerebrali theta e le increspature/onde acute emesse dal subicolo controllano i tempi della trasmissione delle informazioni a seconda di quale regione del cervello puntano i neuroni subicolari, e i tempi sono gestiti con precisione al millisecondo. Questo potrebbe aiutare a spiegare la natura selettiva del subicolo e perché la tua consapevolezza dell'ambiente mutevole e degli aggiornamenti continui alla tua guida avvengono nello stesso tempo.


La squadra prevede di usare il loro nuovo metodo di monitorare l'attività neuronale su una scala più ampia. "Nel seguito, includeremo le informazioni dell'ippocampo generate dai segnali sensoriali periferici in entrata", afferma Kitanishi. Usando questa ricerca come base per una comprensione completa del sistema di memoria dell'ippocampo, "speriamo anche di far luce sui disturbi associati al malfunzionamento dell'ippocampo, come la demenza".

 

 

 


Fonte: Osaka City University (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: Takuma Kitanishi, Ryoko Umaba, Kenji Mizuseki. Robust information routing by dorsal subiculum neurons. Science Advances 10 Mar 2021, DOI

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Studio della Osaka City University ha scoperto che il subicolo nel cervello aiuta a instradare verso le aree a valle le informazioni associate alla navigazione ricevute dall'ippocampo.

L'ippocampo è la parte del cervello che ha a che fare con le informazioni associate alla navigazione e alla memoria spaziale. Ad esempio, stai guidando e nonostante l'ambiente in continuo cambiamento, con diverse auto che vanno a velocità variabili, i sali-e-scendi dalle rampe, le distrazioni dei cartelloni pubblicitari, ecc., tu regoli la tua velocità, dai solo un'occhiata veloce ai cartelloni pubblicitari e ti muovi nelle strade in modo scorrevole e tempestivo.


Questo è il tuo ippocampo al lavoro. Prende gli stimoli in ingresso (un ambiente in continua evoluzione) e aiuta a trasformarli in un risultato elaborato, usando la memoria di una mappa stradale per muoverti in sicurezza dove stai andando. Tuttavia, si sa poco del modo in cui l'ippocampo distribuisce le informazioni ad altre regioni cerebrali, determinando il comportamento conseguente.


Un team di ricerca guidato dal docente Takuma Kitanishi e dal prof. Kenji Mizuseki del Dipartimento di Fisiologia della Osaka City University, ha chiarito per la prima volta che le informazioni spaziali ricevute dall'ippocampo sono ulteriormente dirette a valle da una regione del cervello chiamata subicolo.


"L'ippocampo elabora le informazioni con cui tutti abbiamo familiarità nel quotidiano, dal pendolarismo al lavoro, al vedere la nonna", afferma Kitanishi, "tuttavia, i metodi comunemente usati per misurare l'attività cerebrale non ci hanno permesso di sapere a quale regione del cervello l'ippocampo trasmette informazioni".


Il team ha ideato un metodo per tracciare questo flusso infra-regionale di attività neuronale. Combinando la registrazione di attività neuronali su larga scala e la stimolazione ottica multi-sito, hanno misurato l'attività cerebrale di ratti che si muovevano liberamente. Hanno scoperto che, mentre l'ippocampo riceve e trasmette una vasta gamma di informazioni, il subicolo instrada le informazioni ereditate dall'ippocampo, resistendo al rumore. Pensiamo al subicolo come l'ufficio di smistamento locale della posta dell'ippocampo.


"Abbiamo trovato che le informazioni su 'velocità' e 'traiettoria' sono trasmesse selettivamente alle regioni della corteccia retrospleniale e al nucleo accumbens, rispettivamente, del cervello, mentre le informazioni di 'luogo' sono distribuite ugualmente tra quattro regioni: il nucleo accumbens, il talamo anteroventrale, il corpo mammillare e la corteccia retrospleniale", afferma Kenji Mizueki.


Il team ha anche osservato che le onde cerebrali theta e le increspature/onde acute emesse dal subicolo controllano i tempi della trasmissione delle informazioni a seconda di quale regione del cervello puntano i neuroni subicolari, e i tempi sono gestiti con precisione al millisecondo. Questo potrebbe aiutare a spiegare la natura selettiva del subicolo e perché la tua consapevolezza dell'ambiente mutevole e degli aggiornamenti continui alla tua guida avvengono nello stesso tempo.


La squadra prevede di usare il loro nuovo metodo di monitorare l'attività neuronale su una scala più ampia. "Nel seguito, includeremo le informazioni dell'ippocampo generate dai segnali sensoriali periferici in entrata", afferma Kitanishi. Usando questa ricerca come base per una comprensione completa del sistema di memoria dell'ippocampo, "speriamo anche di far luce sui disturbi associati al malfunzionamento dell'ippocampo, come la demenza".

 

 

 


Fonte: Osaka City University (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: Takuma Kitanishi, Ryoko Umaba, Kenji Mizuseki. Robust information routing by dorsal subiculum neurons. Science Advances 10 Mar 2021, DOI

Copyright: Tutti i diritti di testi o marchi inclusi nell'articolo sono riservati ai rispettivi proprietari.

Liberatoria: Questo articolo non propone terapie o diete; per qualsiasi modifica della propria cura o regime alimentare si consiglia di rivolgersi a un medico o dietologo. Il contenuto non rappresenta necessariamente l'opinione dell'Associazione Alzheimer OdV di Riese Pio X ma solo quella dell'autore citato come "Fonte". I siti terzi raggiungibili da eventuali collegamenti contenuti nell'articolo e/o dagli annunci pubblicitari sono completamente estranei all'Associazione, il loro accesso e uso è a discrezione dell'utente. Liberatoria completa qui.

Nota: L'articolo potrebbe riferire risultati di ricerche mediche, psicologiche, scientifiche o sportive che riflettono lo stato delle conoscenze raggiunte fino alla data della loro pubblicazione.


 

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Una ricerca appena pubblicata ha rivelato un collegamento stretto tra le proteine ​​associate al morbo di Alzheimer (MA) e la perdita di vista legata all'età. I risultati potrebbero aprire la strada a nuovi trattamenti per i pazienti con deterioramento della vista e attraverso questo studio, gli scienziati ritengono di poter ridurre la necessità di usare animali nelle ricerche future sulla malattie dell'occhio.


La proteina a​miloide-beta (Aβ) è la causa principale del MA, ma comincia anche a raccogliersi nella retina mentre le persone invecchiano. Occhi donati da pazienti che soffrivano di degenerazione maculare legata all'età (DMLE), la causa più comune di cecità degli anziani, hanno dimostrato di avere molta Aβ nella retina.


Questo nuovo studio, pubblicato su Cells, si basa su ricerche precedenti che avevano mostrato che l'Aβ si raccoglie attorno a uno strato di cellule chiamato 'epitelio pigmentato retinico' (EPR), stabilendo quali danni causano alle cellule EPR queste proteine ​​tossiche.


Il team di ricerca ha esposto all'Aβ le cellule EPR di occhi normali di topo e in coltura. Il topo modello ha permesso al team di osservare l'effetto della proteina sul tessuto di occhi viventi, attraverso tecniche di scansione non invasive usate nelle cliniche di oftalmologia. I risultati hanno mostrato che gli occhi del topo sviluppano una patologia retinica sorprendentemente simile alla DMLE degli umani.


La dott.ssa Arjuna Ratnayaka, docente di scienze della vista all'Università di Southampton, che ha guidato lo studio, ha detto:

"Questo è uno studio importante che ha mostrato anche che il numero di topi usati per esperimenti di questo tipo può essere ridotto significativamente in futuro. Siamo riusciti a sviluppare un modello robusto per studiare la patologia retinica simile all'DMLE guidata dall'Aβ senza usare animali transgenici, spesso impiegati dai ricercatori del settore.

"Può servire fino a un anno, e di solito di più, prima che ai topi transgenici, o progettati geneticamente, l'Aβ provochi la patologia nella retina; ora possiamo ottenerlo in 2 settimane. Questo riduce la necessità di sviluppare altri modelli transgenici e migliora il benessere degli animali".


I ricercatori hanno anche usato modelli di cellule, che hanno ulteriormente ridotto l'uso di topi in questi esperimenti, dimostrando che le proteine ​​Aβ tossiche entrano nelle cellule EPR e si raccolgono rapidamente nei lisosomi, il sistema di smaltimento dei rifiuti delle cellule. Anche se le cellule facevano il loro solito lavoro di aumentare gli enzimi all'interno dei lisosomi per scomporre questo carico indesiderato, lo studio ha rilevato che circa l'85% dell'Aβ rimaneva ancora all'interno dei lisosomi, e quindi le molecole tossiche continueranno ad accumularsi nel tempo all'interno delle cellule EPR.


Inoltre, i ricercatori hanno scoperto che una volta che i lisosomi erano invasi dall'Aβ, era disponibile circa il 20% in meno di lisosomi per scomporre i segmenti esterni del fotorecettore, una funzione che eseguono regolarmente nel ciclo visivo giornaliero. La dott.ssa Ratnayaka ha aggiunto:

"Questa è un'ulteriore indicazione del modo in cui le cellule degli occhi possono deteriorarsi nel tempo a causa di queste molecole tossiche che si raccolgono all'interno delle cellule EPR. Questo potrebbe essere un nuovo percorso che nessuno ha esplorato finora.

"Le nostre scoperte hanno anche rafforzato il legame tra le malattie dell'occhio e il cervello. L'occhio fa parte del cervello e abbiamo mostrato che l'Aβ, nota per guidare importanti condizioni neurologiche come il MA, può anche causare danni significativi alle cellule della retina".


I ricercatori sperano che uno dei prossimi passi sia la riproposizione di farmaci anti-Aβ, già sperimentati nei pazienti di MA, e la loro sperimentazione come possibile trattamento per la degenerazione maculare correlata all'età. Poiché i regolatori di farmaci USA e della UE hanno già dato l'approvazione per molti di questi farmaci, questa è un'area che potrebbe essere esplorata con relativa rapidità.


Lo studio può anche aiutare gli sforzi più ampi per superare in gran parte la sperimentazione animale ove possibile, e quindi alcuni aspetti dei test su nuovi trattamenti clinici possono passare direttamente dai modelli cellulari ai pazienti.

 

 

 


Fonte: University of Southampton (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: Savannah Lynn, David Johnston, Jenny Scott, Rosie Munday, Roshni Desai, Eloise Keeling, Ruaridh Weaterton, Alexander Simpson, Dillon Davis, Thomas Freeman, David Chatelet, Anton Page, Angela Cree, Helena Lee, Tracey Newman, Andrew Lotery, Arjuna Ratnayaka. Oligomeric Aβ1-42 Induces an AMD-Like Phenotype and Accumulates in Lysosomes to Impair RPE Function. Cells, 2021, DOI

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Una ricerca appena pubblicata ha rivelato un collegamento stretto tra le proteine ​​associate al morbo di Alzheimer (MA) e la perdita di vista legata all'età. I risultati potrebbero aprire la strada a nuovi trattamenti per i pazienti con deterioramento della vista e attraverso questo studio, gli scienziati ritengono di poter ridurre la necessità di usare animali nelle ricerche future sulla malattie dell'occhio.


La proteina a​miloide-beta (Aβ) è la causa principale del MA, ma comincia anche a raccogliersi nella retina mentre le persone invecchiano. Occhi donati da pazienti che soffrivano di degenerazione maculare legata all'età (DMLE), la causa più comune di cecità degli anziani, hanno dimostrato di avere molta Aβ nella retina.


Questo nuovo studio, pubblicato su Cells, si basa su ricerche precedenti che avevano mostrato che l'Aβ si raccoglie attorno a uno strato di cellule chiamato 'epitelio pigmentato retinico' (EPR), stabilendo quali danni causano alle cellule EPR queste proteine ​​tossiche.


Il team di ricerca ha esposto all'Aβ le cellule EPR di occhi normali di topo e in coltura. Il topo modello ha permesso al team di osservare l'effetto della proteina sul tessuto di occhi viventi, attraverso tecniche di scansione non invasive usate nelle cliniche di oftalmologia. I risultati hanno mostrato che gli occhi del topo sviluppano una patologia retinica sorprendentemente simile alla DMLE degli umani.


La dott.ssa Arjuna Ratnayaka, docente di scienze della vista all'Università di Southampton, che ha guidato lo studio, ha detto:

"Questo è uno studio importante che ha mostrato anche che il numero di topi usati per esperimenti di questo tipo può essere ridotto significativamente in futuro. Siamo riusciti a sviluppare un modello robusto per studiare la patologia retinica simile all'DMLE guidata dall'Aβ senza usare animali transgenici, spesso impiegati dai ricercatori del settore.

"Può servire fino a un anno, e di solito di più, prima che ai topi transgenici, o progettati geneticamente, l'Aβ provochi la patologia nella retina; ora possiamo ottenerlo in 2 settimane. Questo riduce la necessità di sviluppare altri modelli transgenici e migliora il benessere degli animali".


I ricercatori hanno anche usato modelli di cellule, che hanno ulteriormente ridotto l'uso di topi in questi esperimenti, dimostrando che le proteine ​​Aβ tossiche entrano nelle cellule EPR e si raccolgono rapidamente nei lisosomi, il sistema di smaltimento dei rifiuti delle cellule. Anche se le cellule facevano il loro solito lavoro di aumentare gli enzimi all'interno dei lisosomi per scomporre questo carico indesiderato, lo studio ha rilevato che circa l'85% dell'Aβ rimaneva ancora all'interno dei lisosomi, e quindi le molecole tossiche continueranno ad accumularsi nel tempo all'interno delle cellule EPR.


Inoltre, i ricercatori hanno scoperto che una volta che i lisosomi erano invasi dall'Aβ, era disponibile circa il 20% in meno di lisosomi per scomporre i segmenti esterni del fotorecettore, una funzione che eseguono regolarmente nel ciclo visivo giornaliero. La dott.ssa Ratnayaka ha aggiunto:

"Questa è un'ulteriore indicazione del modo in cui le cellule degli occhi possono deteriorarsi nel tempo a causa di queste molecole tossiche che si raccolgono all'interno delle cellule EPR. Questo potrebbe essere un nuovo percorso che nessuno ha esplorato finora.

"Le nostre scoperte hanno anche rafforzato il legame tra le malattie dell'occhio e il cervello. L'occhio fa parte del cervello e abbiamo mostrato che l'Aβ, nota per guidare importanti condizioni neurologiche come il MA, può anche causare danni significativi alle cellule della retina".


I ricercatori sperano che uno dei prossimi passi sia la riproposizione di farmaci anti-Aβ, già sperimentati nei pazienti di MA, e la loro sperimentazione come possibile trattamento per la degenerazione maculare correlata all'età. Poiché i regolatori di farmaci USA e della UE hanno già dato l'approvazione per molti di questi farmaci, questa è un'area che potrebbe essere esplorata con relativa rapidità.


Lo studio può anche aiutare gli sforzi più ampi per superare in gran parte la sperimentazione animale ove possibile, e quindi alcuni aspetti dei test su nuovi trattamenti clinici possono passare direttamente dai modelli cellulari ai pazienti.

 

 

 


Fonte: University of Southampton (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: Savannah Lynn, David Johnston, Jenny Scott, Rosie Munday, Roshni Desai, Eloise Keeling, Ruaridh Weaterton, Alexander Simpson, Dillon Davis, Thomas Freeman, David Chatelet, Anton Page, Angela Cree, Helena Lee, Tracey Newman, Andrew Lotery, Arjuna Ratnayaka. Oligomeric Aβ1-42 Induces an AMD-Like Phenotype and Accumulates in Lysosomes to Impair RPE Function. Cells, 2021, DOI

Copyright: Tutti i diritti di testi o marchi inclusi nell'articolo sono riservati ai rispettivi proprietari.

Liberatoria: Questo articolo non propone terapie o diete; per qualsiasi modifica della propria cura o regime alimentare si consiglia di rivolgersi a un medico o dietologo. Il contenuto non rappresenta necessariamente l'opinione dell'Associazione Alzheimer OdV di Riese Pio X ma solo quella dell'autore citato come "Fonte". I siti terzi raggiungibili da eventuali collegamenti contenuti nell'articolo e/o dagli annunci pubblicitari sono completamente estranei all'Associazione, il loro accesso e uso è a discrezione dell'utente. Liberatoria completa qui.

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Quando richiamiamo un ricordo, recuperiamo dettagli specifici su dove, quando, con chi. Ma spesso sperimentiamo anche una vivida sensazione di ricordare l'evento, a volte quasi lo riviviamo. I ricercatori della memoria chiamano questi processi rispettivamente memoria oggettiva e soggettiva.


Un nuovo studio dell'Università della California di Davis mostra che la memoria oggettiva e quella soggettiva possono funzionare in modo indipendente e coinvolgere diverse parti del cervello, e che le persone fondano le loro decisioni sulla memoria soggettiva - come si sentono in relazione al ricordo - più che sulla sua precisione.


Simona Ghetti, professoressa nel Dipartimento di Psicologia e del Centro Mente e Cervello della UC Davis, coautrice senior del lavoro pubblicato dal 9 marzo su eLife, ha dichiarato:

"Lo studio distingue tra quanto bene ricordiamo e quanto bene pensiamo di ricordare, e dimostra che il processo decisionale dipende principalmente dalla valutazione soggettiva dell'evidenza di memoria".


La ricercatrice post-dottorato Yana Fandakova, ora ricercatrice al Max Planck Institute for Human Development di Berlino, il dottorando Elliott Johnson e la Ghetti hanno testato la memoria oggettiva e quella soggettiva. Dopo aver mostrato a dei volontari una serie di immagini di oggetti comuni, i ricercatori hanno mostrato loro coppie di immagini e hanno chiesto loro di determinare quale delle due avevano visto prima. Ai volontari è stato chiesto di valutare il ricordo come 'richiamato', se lo avevano sperimentato come vivido e dettagliato, o come 'familiare' se avevano sentito che la memoria mancava di dettagli.


In alcuni dei test, le coppie di immagini includevano l'immagine puntata e una simile dello stesso oggetto. In altri, l'obiettivo veniva mostrato con un'immagine non correlata dallo stesso set originale. Ad esempio, una sedia poteva essere mostrata con un'altra sedia vista da un angolo diverso o con una mela.


Questo progetto di esperimento ha permesso ai ricercatori di valutare la memoria oggettiva dal modo in cui i volontari ricordavano di avere visto in precedenza un'immagine e la memoria soggettiva dal modo in cui hanno valutato il proprio ricordo come richiamato vividamente o semplicemente familiare.


Infine, i partecipanti sono stati invitati a selezionare quali immagini tenere e quali scartare, assegnandole a uno scrigno del tesoro o un cestino dell'immondizia. La squadra ha anche usato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per misurare l'attività cerebrale durante questo compito.

 

Dare un punteggio alla memoria soggettiva e oggettiva

I risultati hanno mostrato livelli più elevati di memoria oggettiva quando i partecipanti sono stati testati con coppie di immagini simili. Ma le persone erano più propense a dichiarare di ricordare vividamente quando vedevano coppie di immagini dissimili.
I partecipanti avevano maggiori probabilità di basare la loro decisione se tenere o gettare un'immagine sul modo in cui si sentivano su un ricordo piuttosto che sulla sua accuratezza oggettiva.


Per fare un esempio del mondo reale, una persona potrebbe avere il ricordo vivido di aver partecipato a un evento con gli amici. Alcuni dei dettagli effettivi di quel ricordo potrebbero essere un po' sfumati, ma possono sentire che è un ricordo vivido, quindi potrebbero decidere di uscire di nuovo con le stesse persone (dopo la pandemia).


Dall'altra parte, se qualcuno ha imparato a usare utensili elettrici simili facendo a volte lavori in casa, i suoi ricordi su tali oggetti possono essere piuttosto specifici.


"Ma potresti ancora sentire che non stai ricordando vividamente, perché sei incerto se stai ricordando la procedura giusta per lo strumento giusto. Quindi, potresti finire per chiedere aiuto invece di affidarti alla tua memoria", ha detto la Ghetti.


I dati fMRI hanno mostrato che la memoria oggettiva e quella soggettiva reclutano regioni corticali distinte in quelle parietali e prefrontali. Le regioni coinvolte nelle esperienze soggettive erano coinvolte anche nel processo decisionale, rafforzando la connessione tra i due processi.


"Comprendendo come il nostro cervello dà origine a ricordi soggettivi vividi e a decisioni sulla memoria, stiamo facendo un passo avanti per capire come impariamo a valutare l'evidenza della memoria per prendere decisioni efficaci in futuro", ha detto la Fandakova.

 

 

 


Fonte: Andy Fell in University of California - Davis (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: Yana Fandakova, Elliott Johnson, Simona Ghetti. Distinct neural mechanisms underlie subjective and objective recollection and guide memory-based decision making. eLife, 2021, DOI

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Quando richiamiamo un ricordo, recuperiamo dettagli specifici su dove, quando, con chi. Ma spesso sperimentiamo anche una vivida sensazione di ricordare l'evento, a volte quasi lo riviviamo. I ricercatori della memoria chiamano questi processi rispettivamente memoria oggettiva e soggettiva.


Un nuovo studio dell'Università della California di Davis mostra che la memoria oggettiva e quella soggettiva possono funzionare in modo indipendente e coinvolgere diverse parti del cervello, e che le persone fondano le loro decisioni sulla memoria soggettiva - come si sentono in relazione al ricordo - più che sulla sua precisione.


Simona Ghetti, professoressa nel Dipartimento di Psicologia e del Centro Mente e Cervello della UC Davis, coautrice senior del lavoro pubblicato dal 9 marzo su eLife, ha dichiarato:

"Lo studio distingue tra quanto bene ricordiamo e quanto bene pensiamo di ricordare, e dimostra che il processo decisionale dipende principalmente dalla valutazione soggettiva dell'evidenza di memoria".


La ricercatrice post-dottorato Yana Fandakova, ora ricercatrice al Max Planck Institute for Human Development di Berlino, il dottorando Elliott Johnson e la Ghetti hanno testato la memoria oggettiva e quella soggettiva. Dopo aver mostrato a dei volontari una serie di immagini di oggetti comuni, i ricercatori hanno mostrato loro coppie di immagini e hanno chiesto loro di determinare quale delle due avevano visto prima. Ai volontari è stato chiesto di valutare il ricordo come 'richiamato', se lo avevano sperimentato come vivido e dettagliato, o come 'familiare' se avevano sentito che la memoria mancava di dettagli.


In alcuni dei test, le coppie di immagini includevano l'immagine puntata e una simile dello stesso oggetto. In altri, l'obiettivo veniva mostrato con un'immagine non correlata dallo stesso set originale. Ad esempio, una sedia poteva essere mostrata con un'altra sedia vista da un angolo diverso o con una mela.


Questo progetto di esperimento ha permesso ai ricercatori di valutare la memoria oggettiva dal modo in cui i volontari ricordavano di avere visto in precedenza un'immagine e la memoria soggettiva dal modo in cui hanno valutato il proprio ricordo come richiamato vividamente o semplicemente familiare.


Infine, i partecipanti sono stati invitati a selezionare quali immagini tenere e quali scartare, assegnandole a uno scrigno del tesoro o un cestino dell'immondizia. La squadra ha anche usato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per misurare l'attività cerebrale durante questo compito.

 

Dare un punteggio alla memoria soggettiva e oggettiva

I risultati hanno mostrato livelli più elevati di memoria oggettiva quando i partecipanti sono stati testati con coppie di immagini simili. Ma le persone erano più propense a dichiarare di ricordare vividamente quando vedevano coppie di immagini dissimili.
I partecipanti avevano maggiori probabilità di basare la loro decisione se tenere o gettare un'immagine sul modo in cui si sentivano su un ricordo piuttosto che sulla sua accuratezza oggettiva.


Per fare un esempio del mondo reale, una persona potrebbe avere il ricordo vivido di aver partecipato a un evento con gli amici. Alcuni dei dettagli effettivi di quel ricordo potrebbero essere un po' sfumati, ma possono sentire che è un ricordo vivido, quindi potrebbero decidere di uscire di nuovo con le stesse persone (dopo la pandemia).


Dall'altra parte, se qualcuno ha imparato a usare utensili elettrici simili facendo a volte lavori in casa, i suoi ricordi su tali oggetti possono essere piuttosto specifici.


"Ma potresti ancora sentire che non stai ricordando vividamente, perché sei incerto se stai ricordando la procedura giusta per lo strumento giusto. Quindi, potresti finire per chiedere aiuto invece di affidarti alla tua memoria", ha detto la Ghetti.


I dati fMRI hanno mostrato che la memoria oggettiva e quella soggettiva reclutano regioni corticali distinte in quelle parietali e prefrontali. Le regioni coinvolte nelle esperienze soggettive erano coinvolte anche nel processo decisionale, rafforzando la connessione tra i due processi.


"Comprendendo come il nostro cervello dà origine a ricordi soggettivi vividi e a decisioni sulla memoria, stiamo facendo un passo avanti per capire come impariamo a valutare l'evidenza della memoria per prendere decisioni efficaci in futuro", ha detto la Fandakova.

 

 

 


Fonte: Andy Fell in University of California - Davis (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: Yana Fandakova, Elliott Johnson, Simona Ghetti. Distinct neural mechanisms underlie subjective and objective recollection and guide memory-based decision making. eLife, 2021, DOI

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Liberatoria: Questo articolo non propone terapie o diete; per qualsiasi modifica della propria cura o regime alimentare si consiglia di rivolgersi a un medico o dietologo. Il contenuto non rappresenta necessariamente l'opinione dell'Associazione Alzheimer OdV di Riese Pio X ma solo quella dell'autore citato come "Fonte". I siti terzi raggiungibili da eventuali collegamenti contenuti nell'articolo e/o dagli annunci pubblicitari sono completamente estranei all'Associazione, il loro accesso e uso è a discrezione dell'utente. Liberatoria completa qui.

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neuron green ensheathed by an oligodendrocyte purple

Scienziati della University of Texas Southwestern hanno identificato i geni chiave coinvolti nelle onde cerebrali che sono fondamentali per la codifica dei ricordi. I loro risultati, pubblicati online questa settimana su Nature Neuroscience, potrebbero infine essere usati per sviluppare nuove terapie per le persone con disturbi della perdita di memoria come il morbo di Alzheimer e altre forme di demenza.


Produrre un ricordo richiede che gruppi di cellule cerebrali 'sparino' [segnali] in modo cooperativo a varie frequenze, un fenomeno chiamato 'oscillazioni neurali'. Tuttavia la base genetica di questo processo non è chiara, spiegano l'autore senior dello studio Bradley Lega MD, professore associato di chirurgia neurologica, neurologia e psichiatria, e Genevieve Konopka PhD, professoressa associata di neuroscienze.


"C'è un detto famoso da 100 anni nelle neuroscienze: i neuroni che sparano insieme, si cableranno insieme", afferma Lega. "Sappiamo che le cellule coinvolte nell'apprendimento sparano in gruppi e formano nuove connessioni a causa dell'influenza di queste oscillazioni. Ma non sappiamo niente di come i geni regolano questo processo nelle persone".


Lega e la Konopka hanno collaborato a uno studio precedente per esplorare questa questione, raccogliendo dati sulle oscillazioni neurali da volontari, e usando metodi statistici per collegare queste informazioni ai dati sull'attività genica raccolti da cervelli post-mortem. Sebbene questi risultati avessero identificato un elenco promettente di geni, afferma la Konopka, c'era una carenza significativa nella ricerca: l'oscillazione e i dati genetici provengono da gruppi diversi di individui.


Più di recente, il duo ha sfruttato l'opportunità senza precedenti di eseguire uno studio simile su pazienti sottoposti a intervento chirurgico che rimuoveva parti danneggiate del cervello per aiutare a controllare l'epilessia.


I ricercatori hanno lavorato con 16 volontari dell'unità di monitoraggio dell'epilessia della UT Southwestern, dove i pazienti di epilessia rimangono per diversi giorni, prima dell'intervento chirurgico che rimuove le parti danneggiate del cervello dove si scatenano le convulsioni. Gli elettrodi impiantati nel cervello di questi pazienti in questo periodo non solo aiutano i chirurghi a identificare con precisione il punto focale delle convulsioni, dice Lega, ma può anche fornire preziose informazioni sul funzionamento interno del cervello.


Mentre registravano l'attività elettrica del cervello di 16 volontari, i ricercatori li hanno invitati a eseguire un compito di 'richiamo libero', che consisteva in leggere una lista di 12 parole, risolvere un semplice problema di matematica per distrarli, e poi ricordare quante più parole possibili. Mentre questi pazienti memorizzavano le liste di parole, venivano registrate le loro onde cerebrali, creando un set di dati che differivano leggermente da persona a persona.


Circa sei settimane dopo, ogni volontario ha subito una lobectomia temporale (rimozione del lobo temporale del cervello) per curare le convulsioni. Questa area è quella dove hanno origine di frequente le convulsioni epilettiche ed è importante anche per la formazione della memoria. Entro 5 minuti dall'intervento, il tessuto cerebrale danneggiato è stato inviato alla valutazione dell'attività genetica.


La squadra della Konopka ha eseguito prima il sequenziamento dell'intero RNA (una tecnica che identifica i geni attivi) nei campioni del lobo temporale, includendo tutti i tipi di cellule del cervello. Usando tecniche statistiche che collegavano questa attività alle oscillazioni neurali dei pazienti durante il compito di richiamo libero, i ricercatori hanno identificato 300 geni che sembravano avere una parte nell'attività oscillatoria. I ricercatori hanno ristretto questo numero a una dozzina di 'geni fulcro' che sembravano controllare reti geniche separate.


Successivamente, i ricercatori hanno esaminato l'attività di questi geni fulcro in tipi di cellule separati all'interno dei campioni. , Hanno scoperto con sorpresa che molti di questi fulcri non erano attivi nelle cellule nervose, ma in una diversa popolazione di cellule chiamate 'glia'. Queste cellule forniscono supporto e protezione alle cellule nervose, compresa la produzione dello strato grasso che isola le cellule nervose, in modo che possano trasmettere in modo efficiente i segnali elettrici.


Infine, i ricercatori hanno usato una tecnica chiamata ATAC-seq, che identifica le aree del DNA aperte perché le molecole chiamate fattori di trascrizione possano attaccarsi e attivare i geni. Usando questo approccio, sono arrivati allo SMAD3, un gene che sembra fungere da regolatore principale che controlla l'attività di molti geni fulcro e i geni che a loro volta controllano.


La Konopka e Lega notano che molti dei geni identificati come importanti nelle oscillazioni neurali umane sono stati collegati ad altri disturbi che possono influenzare l'apprendimento e la memoria, come il disturbo dello spettro dell'autismo, il disturbo da deficit di attenzione e iperattività, il disturbo bipolare e la schizofrenia.


Con ulteriori ricerche su questi geni e sulle reti che operano all'interno, potrebbe essere possibile puntare i geni selezionati con farmaci che migliorano la memoria negli individui con queste e altre condizioni, dicono i ricercatori.


"Questo ci dà un punto di partenza", afferma la Konopka, ricercatrice di autismo. "È qualcosa su cui possiamo concentrarci per saperne di più su cosa sottende la memoria umana".

 

 

 


Fonte: UT Southwestern Medical Center (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: Stefano Berto, Miles Fontenot, Sarah Seger, Fatma Ayhan, Emre Caglayan, Ashwinikumar Kulkarni, Connor Douglas, Carol Tamminga, Bradley Lega, Genevieve Konopka. Gene-expression correlates of the oscillatory signatures supporting human episodic memory encoding. Nature Neuroscience, 2021, DOI

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Scienziati della University of Texas Southwestern hanno identificato i geni chiave coinvolti nelle onde cerebrali che sono fondamentali per la codifica dei ricordi. I loro risultati, pubblicati online questa settimana su Nature Neuroscience, potrebbero infine essere usati per sviluppare nuove terapie per le persone con disturbi della perdita di memoria come il morbo di Alzheimer e altre forme di demenza.


Produrre un ricordo richiede che gruppi di cellule cerebrali 'sparino' [segnali] in modo cooperativo a varie frequenze, un fenomeno chiamato 'oscillazioni neurali'. Tuttavia la base genetica di questo processo non è chiara, spiegano l'autore senior dello studio Bradley Lega MD, professore associato di chirurgia neurologica, neurologia e psichiatria, e Genevieve Konopka PhD, professoressa associata di neuroscienze.


"C'è un detto famoso da 100 anni nelle neuroscienze: i neuroni che sparano insieme, si cableranno insieme", afferma Lega. "Sappiamo che le cellule coinvolte nell'apprendimento sparano in gruppi e formano nuove connessioni a causa dell'influenza di queste oscillazioni. Ma non sappiamo niente di come i geni regolano questo processo nelle persone".


Lega e la Konopka hanno collaborato a uno studio precedente per esplorare questa questione, raccogliendo dati sulle oscillazioni neurali da volontari, e usando metodi statistici per collegare queste informazioni ai dati sull'attività genica raccolti da cervelli post-mortem. Sebbene questi risultati avessero identificato un elenco promettente di geni, afferma la Konopka, c'era una carenza significativa nella ricerca: l'oscillazione e i dati genetici provengono da gruppi diversi di individui.


Più di recente, il duo ha sfruttato l'opportunità senza precedenti di eseguire uno studio simile su pazienti sottoposti a intervento chirurgico che rimuoveva parti danneggiate del cervello per aiutare a controllare l'epilessia.


I ricercatori hanno lavorato con 16 volontari dell'unità di monitoraggio dell'epilessia della UT Southwestern, dove i pazienti di epilessia rimangono per diversi giorni, prima dell'intervento chirurgico che rimuove le parti danneggiate del cervello dove si scatenano le convulsioni. Gli elettrodi impiantati nel cervello di questi pazienti in questo periodo non solo aiutano i chirurghi a identificare con precisione il punto focale delle convulsioni, dice Lega, ma può anche fornire preziose informazioni sul funzionamento interno del cervello.


Mentre registravano l'attività elettrica del cervello di 16 volontari, i ricercatori li hanno invitati a eseguire un compito di 'richiamo libero', che consisteva in leggere una lista di 12 parole, risolvere un semplice problema di matematica per distrarli, e poi ricordare quante più parole possibili. Mentre questi pazienti memorizzavano le liste di parole, venivano registrate le loro onde cerebrali, creando un set di dati che differivano leggermente da persona a persona.


Circa sei settimane dopo, ogni volontario ha subito una lobectomia temporale (rimozione del lobo temporale del cervello) per curare le convulsioni. Questa area è quella dove hanno origine di frequente le convulsioni epilettiche ed è importante anche per la formazione della memoria. Entro 5 minuti dall'intervento, il tessuto cerebrale danneggiato è stato inviato alla valutazione dell'attività genetica.


La squadra della Konopka ha eseguito prima il sequenziamento dell'intero RNA (una tecnica che identifica i geni attivi) nei campioni del lobo temporale, includendo tutti i tipi di cellule del cervello. Usando tecniche statistiche che collegavano questa attività alle oscillazioni neurali dei pazienti durante il compito di richiamo libero, i ricercatori hanno identificato 300 geni che sembravano avere una parte nell'attività oscillatoria. I ricercatori hanno ristretto questo numero a una dozzina di 'geni fulcro' che sembravano controllare reti geniche separate.


Successivamente, i ricercatori hanno esaminato l'attività di questi geni fulcro in tipi di cellule separati all'interno dei campioni. , Hanno scoperto con sorpresa che molti di questi fulcri non erano attivi nelle cellule nervose, ma in una diversa popolazione di cellule chiamate 'glia'. Queste cellule forniscono supporto e protezione alle cellule nervose, compresa la produzione dello strato grasso che isola le cellule nervose, in modo che possano trasmettere in modo efficiente i segnali elettrici.


Infine, i ricercatori hanno usato una tecnica chiamata ATAC-seq, che identifica le aree del DNA aperte perché le molecole chiamate fattori di trascrizione possano attaccarsi e attivare i geni. Usando questo approccio, sono arrivati allo SMAD3, un gene che sembra fungere da regolatore principale che controlla l'attività di molti geni fulcro e i geni che a loro volta controllano.


La Konopka e Lega notano che molti dei geni identificati come importanti nelle oscillazioni neurali umane sono stati collegati ad altri disturbi che possono influenzare l'apprendimento e la memoria, come il disturbo dello spettro dell'autismo, il disturbo da deficit di attenzione e iperattività, il disturbo bipolare e la schizofrenia.


Con ulteriori ricerche su questi geni e sulle reti che operano all'interno, potrebbe essere possibile puntare i geni selezionati con farmaci che migliorano la memoria negli individui con queste e altre condizioni, dicono i ricercatori.


"Questo ci dà un punto di partenza", afferma la Konopka, ricercatrice di autismo. "È qualcosa su cui possiamo concentrarci per saperne di più su cosa sottende la memoria umana".

 

 

 


Fonte: UT Southwestern Medical Center (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: Stefano Berto, Miles Fontenot, Sarah Seger, Fatma Ayhan, Emre Caglayan, Ashwinikumar Kulkarni, Connor Douglas, Carol Tamminga, Bradley Lega, Genevieve Konopka. Gene-expression correlates of the oscillatory signatures supporting human episodic memory encoding. Nature Neuroscience, 2021, DOI

Copyright: Tutti i diritti di testi o marchi inclusi nell'articolo sono riservati ai rispettivi proprietari.

Liberatoria: Questo articolo non propone terapie o diete; per qualsiasi modifica della propria cura o regime alimentare si consiglia di rivolgersi a un medico o dietologo. Il contenuto non rappresenta necessariamente l'opinione dell'Associazione Alzheimer OdV di Riese Pio X ma solo quella dell'autore citato come "Fonte". I siti terzi raggiungibili da eventuali collegamenti contenuti nell'articolo e/o dagli annunci pubblicitari sono completamente estranei all'Associazione, il loro accesso e uso è a discrezione dell'utente. Liberatoria completa qui.

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Le persone che hanno la demenza hanno un rischio molto più elevato di essere infettate dal COVID-19, ma non più probabilità di morire a causa di esso, rispetto a quelle senza deterioramento cognitivo, secondo una nuova ricerca.


Lo studio, presentato dal 14 al 17 marzo alla Conferenza Internazionale dell'American Stroke Association, ha trovato che le persone con qualsiasi tipo di compromissione cognitiva avevano il 51% in più di probabilità di essere infettate. Il loro rischio di morire, tuttavia, non era superiore a quello dei coetanei con cervello non deteriorato, come ha dichiarato dal primo autore Alan Pan, scienziato di dati del Center for Outcomes Research dello Houston Methodist Hospital:

"Non abbiamo riscontrato un rischio addizionale di mortalità rispetto a quello che potresti trovare a causa di altre condizioni di salute sottostanti. Sebbene i tassi di mortalità fossero elevati per questi pazienti, erano più anziani e avevano altri problemi".


Pan e i suoi colleghi hanno esaminato i risultati dei test COVID-19, le diagnosi di demenza, i ricoveri ospedalieri e le morti per quasi 180.000 adulti dello Houston Methodist Hospital tra marzo e dicembre 2020. Hanno scoperto che 6.364 adulti di quelli testati per il COVID-19 avevano un qualche tipo di demenza, come il lieve decadimento cognitivo, l'Alzheimer, la demenza vascolare e altri tipi.


Rispetto agli adulti senza demenza, questo gruppo aveva circa 30 anni di più (età media 79 anni) e aveva più condizioni sottostanti, come pressione alta, insufficienza cardiaca, diabete e cancro. Il 20% degli adulti con demenza ricoverato in ospedale per COVID-19 è morto, rispetto al 9% di coloro che non avevano la demenza. Se abbinati uno-a-uno con coetanei che avevano condizioni sottostanti simili, tuttavia, il divario dei tassi di mortalità è scomparso.


Ciò differisce dalla precedente ricerca che aveva mostrato un rischio più elevato di morte da COVID-19 per le persone con demenza rispetto ai loro pari non deteriorati. Pan ha detto che la differenza potrebbe essere dovuta alla gamma delle pratiche di trattamento nei diversi sistemi sanitari: "La forza del nostro studio è aver fatto quelle analisi abbinate. Volevamo districare il vero effetto che ha il deterioramento cognitivo". I nuovi risultati sono considerati preliminari fino alla pubblicazione in un rivista peer-reviewed (a controllo dei pari).


Uno studio pubblicato il mese scorso su Alzheimer's and Dementia ha analizzato quasi 62 milioni di cartelle cliniche e ha trovato che le persone con demenza avevano il doppio delle probabilità di ottenere il virus. Ha anche scoperto che i neri con la demenza avevano un rischio ancora maggiore.


"Gli adulti con demenza sono più vulnerabili all'infezione da COVID-19, e ad altre malattie infettive, perché hanno più difficoltà a capire e a ricordare di seguire i protocolli di sicurezza", ha detto il dott. Jeff Williamson, capo di medicina geriatrica e gerontologia alla Wake Forest University di Winston-Salem, in Carolina del Nord, che non era coinvolto nel nuovo studio. "Molti di loro potrebbero non avere il senso del rischio. Spesso si espongono senza nemmeno essere consapevoli di ciò".


La vaccinazione è la migliore prevenzione per le persone con demenza, dicono gli esperti. Con scarsa memoria e capacità di funzionalità esecutive, le persone con demenza hanno meno capacità di aderire alle linee guida sulla sicurezza, come il distanziamento sociale, il lavaggio frequente delle mani e l'uso corretto della mascherina quando ci sono intorno altri, ha detto Pan.


Ancora Williamson:

"Le persone con demenza hanno anche livelli più elevati di infiammazione, che potrebbero indebolire il loro sistema immunitario e renderli più suscettibili all'infezione. Queste persone possono essere bersagli facili.

"Le persone nelle prime fasi della demenza hanno un rischio maggiore, perché hanno meno probabilità di avere dei caregiver a proteggerli, e i familiari potrebbero non essere ancora consapevoli del loro bisogno di protezione extra.

"Trovare modi per proteggere dal rischio le persone con disabilità cognitive, senza erodere la loro indipendenza, può essere difficile.

"Fai gli acquisti per conto loro in modo proattivo, prepara i pasti per loro in anticipo, e quindi non dovranno andare a prendere il cibo al negozio o entrare in un ristorante. Le famiglie devono pensare ai punti di rischio e mitigarli".

 

 

 


Fonte: Laura Williamson in American Heart Association (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: Alan Pan, Jennifer Meeks, Thomas Potter, Osman Khan, Sudha Seshadri, Joseph Masdeu, Farhaan Vahidy. Covid-19 Susceptibility and Mortality Among Individuals With Mild Cognitive Impairment, Alzheimer’s Disease and Related Dementias. Stroke, 11 Mar 2021,DOI

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Fonte:

Pubblicato in (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.

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Le persone che hanno la demenza hanno un rischio molto più elevato di essere infettate dal COVID-19, ma non più probabilità di morire a causa di esso, rispetto a quelle senza deterioramento cognitivo, secondo una nuova ricerca.


Lo studio, presentato dal 14 al 17 marzo alla Conferenza Internazionale dell'American Stroke Association, ha trovato che le persone con qualsiasi tipo di compromissione cognitiva avevano il 51% in più di probabilità di essere infettate. Il loro rischio di morire, tuttavia, non era superiore a quello dei coetanei con cervello non deteriorato, come ha dichiarato dal primo autore Alan Pan, scienziato di dati del Center for Outcomes Research dello Houston Methodist Hospital:

"Non abbiamo riscontrato un rischio addizionale di mortalità rispetto a quello che potresti trovare a causa di altre condizioni di salute sottostanti. Sebbene i tassi di mortalità fossero elevati per questi pazienti, erano più anziani e avevano altri problemi".


Pan e i suoi colleghi hanno esaminato i risultati dei test COVID-19, le diagnosi di demenza, i ricoveri ospedalieri e le morti per quasi 180.000 adulti dello Houston Methodist Hospital tra marzo e dicembre 2020. Hanno scoperto che 6.364 adulti di quelli testati per il COVID-19 avevano un qualche tipo di demenza, come il lieve decadimento cognitivo, l'Alzheimer, la demenza vascolare e altri tipi.


Rispetto agli adulti senza demenza, questo gruppo aveva circa 30 anni di più (età media 79 anni) e aveva più condizioni sottostanti, come pressione alta, insufficienza cardiaca, diabete e cancro. Il 20% degli adulti con demenza ricoverato in ospedale per COVID-19 è morto, rispetto al 9% di coloro che non avevano la demenza. Se abbinati uno-a-uno con coetanei che avevano condizioni sottostanti simili, tuttavia, il divario dei tassi di mortalità è scomparso.


Ciò differisce dalla precedente ricerca che aveva mostrato un rischio più elevato di morte da COVID-19 per le persone con demenza rispetto ai loro pari non deteriorati. Pan ha detto che la differenza potrebbe essere dovuta alla gamma delle pratiche di trattamento nei diversi sistemi sanitari: "La forza del nostro studio è aver fatto quelle analisi abbinate. Volevamo districare il vero effetto che ha il deterioramento cognitivo". I nuovi risultati sono considerati preliminari fino alla pubblicazione in un rivista peer-reviewed (a controllo dei pari).


Uno studio pubblicato il mese scorso su Alzheimer's and Dementia ha analizzato quasi 62 milioni di cartelle cliniche e ha trovato che le persone con demenza avevano il doppio delle probabilità di ottenere il virus. Ha anche scoperto che i neri con la demenza avevano un rischio ancora maggiore.


"Gli adulti con demenza sono più vulnerabili all'infezione da COVID-19, e ad altre malattie infettive, perché hanno più difficoltà a capire e a ricordare di seguire i protocolli di sicurezza", ha detto il dott. Jeff Williamson, capo di medicina geriatrica e gerontologia alla Wake Forest University di Winston-Salem, in Carolina del Nord, che non era coinvolto nel nuovo studio. "Molti di loro potrebbero non avere il senso del rischio. Spesso si espongono senza nemmeno essere consapevoli di ciò".


La vaccinazione è la migliore prevenzione per le persone con demenza, dicono gli esperti. Con scarsa memoria e capacità di funzionalità esecutive, le persone con demenza hanno meno capacità di aderire alle linee guida sulla sicurezza, come il distanziamento sociale, il lavaggio frequente delle mani e l'uso corretto della mascherina quando ci sono intorno altri, ha detto Pan.


Ancora Williamson:

"Le persone con demenza hanno anche livelli più elevati di infiammazione, che potrebbero indebolire il loro sistema immunitario e renderli più suscettibili all'infezione. Queste persone possono essere bersagli facili.

"Le persone nelle prime fasi della demenza hanno un rischio maggiore, perché hanno meno probabilità di avere dei caregiver a proteggerli, e i familiari potrebbero non essere ancora consapevoli del loro bisogno di protezione extra.

"Trovare modi per proteggere dal rischio le persone con disabilità cognitive, senza erodere la loro indipendenza, può essere difficile.

"Fai gli acquisti per conto loro in modo proattivo, prepara i pasti per loro in anticipo, e quindi non dovranno andare a prendere il cibo al negozio o entrare in un ristorante. Le famiglie devono pensare ai punti di rischio e mitigarli".

 

 

 


Fonte: Laura Williamson in American Heart Association (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: Alan Pan, Jennifer Meeks, Thomas Potter, Osman Khan, Sudha Seshadri, Joseph Masdeu, Farhaan Vahidy. Covid-19 Susceptibility and Mortality Among Individuals With Mild Cognitive Impairment, Alzheimer’s Disease and Related Dementias. Stroke, 11 Mar 2021,DOI

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Un ictus ischemico aumenta il rischio di demenza e quel rischio aumenta con il numero e la gravità degli ictus, secondo una ricerca preliminare presentata alla Conferenza Internazionale 2021 della American Stroke Association dal 14 al 17 marzo 2021, un incontro virtuale per ricercatori e medici dedicati alla scienza dell'ictus e alla salute del cervello.


Quello ischemico è il tipo più comune di ictus, rappresenta l'87% di tutti i casi. Si verifica quando si ostruisce un vaso capillare che fornisce sangue al cervello. L'ictus è la causa principale prevenibile di disabilità negli adulti, e la sua gravità è un determinante principale di un esito funzionale scadente dopo l'ictus.


La prima autrice dello studio Silvia Koton PhD/MOccH/RN/FAHA, capo dell'Herczeg Institute on Aging dell'Università di Tel Aviv e responsabile del relativo programma di dottorato in infermieristica, ha detto:

"Gli studi hanno dimostrato che l'ictus è un forte predittore di demenza. Ciò che non era chiaro è il modo in cui la gravità dell'ictus e il numero di episodi subiti impatta il rischio di demenza. Il nostro studio caratterizza in modo univoco il legame tra ictus e demenza e stabilisce una base per le strategie di prevenzione volte a ridurre il rischio di demenza dopo un ictus".


I ricercatori hanno studiato le informazioni al basale sulla salute di quasi 15.800 adulti da 45 a 64 anni di età, iscritti all'Atherosclerosis Risk in Communities (ARIC), uno studio continuo e prospettico in quattro comunità statunitensi (Contea di Forsyth/North Carolina, Jackson/Mississippi, periferia di Minneapolis/Minnesota e contea di Washington/Maryland).


I ricercatori hanno usato i dati di esami registrati in tre decenni nel database ARIC, che include il periodo a partire dall'iscrizione nel 1987 e fino a tutto il 2019, con dati raccolti sia nelle visite in persona a diversi anni una dall'altra, che nelle telefonate annuali fino al 2012 e semestrali fino al 2019.


Studiando tutte le informazioni disponibili nell'ARIC sul legame tra il numero di ictus, la loro gravità e la demenza, i ricercatori hanno trovato che:

  • il rischio di demenza negli individui che avevano subito almeno un ictus ischemico era 2 volte superiore a quelli senza ictus;
  • il rischio di demenza aumentava con la gravità e il numero di ictus ischemici;
  • gli adulti che avevano avuto un ictus avevano quasi l'80% in più di probabilità di quelli senza ictus di avere la demenza;
  • il rischio di demenza era 8,5 volte superiore per le persone che avevano avuto tre o più ictus durante il periodo di studio, dal 1987 al 2019;
  • negli adulti con un ictus grave, il rischio di demenza era quasi 5 volte superiore a quelli con ictus minore.


La Koton ha commentato così i risultati:

"L'associazione tra un ictus e la sua gravità, con il rischio di demenza era sorprendentemente forte, e il continuo aumento del rischio di demenza dopo il primo ictus e ogni ictus successivo è stata una scoperta notevole.

"I nostri risultati sottolineano l'importanza di prevenire l'ictus per prevenire la demenza e di mantenere elevati livelli di funzione fisica e cognitiva e di qualità della vita, specialmente nell'età più avanzata.

"L'ictus è in gran parte prevenibile. Trattamento e controllo dell'ipertensione, diabete e obesità, insieme a uno stile di vita sano, che comprende attività fisica regolare e non fumare, sono fondamentali per prevenire ictus e demenza".


I ricercatori hanno studiato solo l'ictus ischemico. La Koton ha aggiunto:

"Analizzare l'impatto di altri sottotipi di ictus sul rischio di demenza sarebbe importante. Per il seguito abbiamo intenzione di studiare il legame tra ictus e lieve deterioramento cognitivo e tra ictus e cambiamenti nelle prestazioni cognitive nel tempo. Gli studi futuri includeranno anche informazioni sulle scansioni cerebrali, che contribuiranno a valutare i possibili effetti delle lesioni vascolari nel cervello in aggiunta all'ictus".

 

 

 


Fonte: American Stroke Association (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: Silvia Koton, James Russell Pike, Michelle Johansen, David Knopman, Kamakshi Lakshminarayan, Thomas Mosley, Shalom Patole, Wayne Rosamond, Andrea Schneider, Richey Sharrett, Lisa Wruck, Josef Coresh, Rebecca F. Gottesman. American Stroke Association International Stroke Conference, 17-19 Mar 2021

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Fonte:

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Un ictus ischemico aumenta il rischio di demenza e quel rischio aumenta con il numero e la gravità degli ictus, secondo una ricerca preliminare presentata alla Conferenza Internazionale 2021 della American Stroke Association dal 14 al 17 marzo 2021, un incontro virtuale per ricercatori e medici dedicati alla scienza dell'ictus e alla salute del cervello.


Quello ischemico è il tipo più comune di ictus, rappresenta l'87% di tutti i casi. Si verifica quando si ostruisce un vaso capillare che fornisce sangue al cervello. L'ictus è la causa principale prevenibile di disabilità negli adulti, e la sua gravità è un determinante principale di un esito funzionale scadente dopo l'ictus.


La prima autrice dello studio Silvia Koton PhD/MOccH/RN/FAHA, capo dell'Herczeg Institute on Aging dell'Università di Tel Aviv e responsabile del relativo programma di dottorato in infermieristica, ha detto:

"Gli studi hanno dimostrato che l'ictus è un forte predittore di demenza. Ciò che non era chiaro è il modo in cui la gravità dell'ictus e il numero di episodi subiti impatta il rischio di demenza. Il nostro studio caratterizza in modo univoco il legame tra ictus e demenza e stabilisce una base per le strategie di prevenzione volte a ridurre il rischio di demenza dopo un ictus".


I ricercatori hanno studiato le informazioni al basale sulla salute di quasi 15.800 adulti da 45 a 64 anni di età, iscritti all'Atherosclerosis Risk in Communities (ARIC), uno studio continuo e prospettico in quattro comunità statunitensi (Contea di Forsyth/North Carolina, Jackson/Mississippi, periferia di Minneapolis/Minnesota e contea di Washington/Maryland).


I ricercatori hanno usato i dati di esami registrati in tre decenni nel database ARIC, che include il periodo a partire dall'iscrizione nel 1987 e fino a tutto il 2019, con dati raccolti sia nelle visite in persona a diversi anni una dall'altra, che nelle telefonate annuali fino al 2012 e semestrali fino al 2019.


Studiando tutte le informazioni disponibili nell'ARIC sul legame tra il numero di ictus, la loro gravità e la demenza, i ricercatori hanno trovato che:

  • il rischio di demenza negli individui che avevano subito almeno un ictus ischemico era 2 volte superiore a quelli senza ictus;
  • il rischio di demenza aumentava con la gravità e il numero di ictus ischemici;
  • gli adulti che avevano avuto un ictus avevano quasi l'80% in più di probabilità di quelli senza ictus di avere la demenza;
  • il rischio di demenza era 8,5 volte superiore per le persone che avevano avuto tre o più ictus durante il periodo di studio, dal 1987 al 2019;
  • negli adulti con un ictus grave, il rischio di demenza era quasi 5 volte superiore a quelli con ictus minore.


La Koton ha commentato così i risultati:

"L'associazione tra un ictus e la sua gravità, con il rischio di demenza era sorprendentemente forte, e il continuo aumento del rischio di demenza dopo il primo ictus e ogni ictus successivo è stata una scoperta notevole.

"I nostri risultati sottolineano l'importanza di prevenire l'ictus per prevenire la demenza e di mantenere elevati livelli di funzione fisica e cognitiva e di qualità della vita, specialmente nell'età più avanzata.

"L'ictus è in gran parte prevenibile. Trattamento e controllo dell'ipertensione, diabete e obesità, insieme a uno stile di vita sano, che comprende attività fisica regolare e non fumare, sono fondamentali per prevenire ictus e demenza".


I ricercatori hanno studiato solo l'ictus ischemico. La Koton ha aggiunto:

"Analizzare l'impatto di altri sottotipi di ictus sul rischio di demenza sarebbe importante. Per il seguito abbiamo intenzione di studiare il legame tra ictus e lieve deterioramento cognitivo e tra ictus e cambiamenti nelle prestazioni cognitive nel tempo. Gli studi futuri includeranno anche informazioni sulle scansioni cerebrali, che contribuiranno a valutare i possibili effetti delle lesioni vascolari nel cervello in aggiunta all'ictus".

 

 

 


Fonte: American Stroke Association (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: Silvia Koton, James Russell Pike, Michelle Johansen, David Knopman, Kamakshi Lakshminarayan, Thomas Mosley, Shalom Patole, Wayne Rosamond, Andrea Schneider, Richey Sharrett, Lisa Wruck, Josef Coresh, Rebecca F. Gottesman. American Stroke Association International Stroke Conference, 17-19 Mar 2021

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oligodendrocyte precursor cells white and myelin red

Un nuovo studio guidato dall'Università di Portsmouth ha individuato uno dei principali fattori del deterioramento del cervello correlato all'età: la perdita di una sostanza chiamata mielina.


La mielina è l'involucro protettivo e isolante attorno alla propaggine che trasporta il segnale comunicativo dei neuroni nel cervello, chiamato assone. La mielina è essenziale per gli scambi elettrici superveloci di tra le cellule nervose che sottendono l'enorme potere del cervello umano.


La perdita di mielina si traduce in declino cognitivo ed è centrale per diverse malattie neurodegenerative, come la sclerosi multipla e l'Alzheimer. Questo nuovo studio ha trovato che le cellule che guidano la riparazione della mielina diventano meno efficienti quando invecchiamo e ha identificato un gene cruciale che è colpito maggiormente dall'invecchiamento, riducendo la capacità delle cellule di sostituire la mielina persa.


Lo studio, appena pubblicato su Aging Cell, fa parte di una collaborazione internazionale guidata dal professor Arthur Butt dell'Università di Portsmouth con il dott. Kasum Azim dell'Università di Düsseldorf in Germania, insieme ai gruppi di ricerca italiani della prof.ssa Maria Pia Abbracchio di Milano e del dott. Andrea Rivera di Padova.


Il prof. Butt ha detto:

"Tutti hanno familiarità con la materia grigia del cervello, ma pochissimi conoscono la materia bianca, che comprende i cavi elettrici isolati che collegano tutte le diverse parti del nostro cervello.

"Una caratteristica fondamentale del cervello che invecchia è la progressiva perdita di materia bianca e di mielina, ma le ragioni alla base di questi processi sono in gran parte sconosciute. Le cellule cerebrali che producono mielina - chiamate oligodendrociti - devono essere sostituite per tutta la vita da cellule staminali chiamate precursori di oligodendrociti.

"Se questo processo va male, allora c'è una perdita di mielina e materia bianca, che provoca effetti devastanti sulla funzione cerebrale e un declino cognitivo. Un nuovo risultato entusiasmante del nostro studio è che abbiamo scoperto uno dei motivi per cui questo processo è rallentato nel cervello che invecchia".


Il dott. Rivera, primo autore dello studio quando era all'Università di Portsmouth e ora Fellow all'Università di Padova, ha spiegato:

"Confrontando il genoma del cervello di un topo giovane con quello di un topo senile, abbiamo identificato quali processi sono influenzati dall'invecchiamento. Queste analisi molto sofisticate ci hanno permesso di svelare le ragioni per cui il rifornimento di oligodendrociti, e la mielina che producono, sono ridotti nel cervello invecchiato.

"Abbiamo capito che il gene GPR17, associato a questi precursori specifici, è il più colpito nel cervello invecchiato e che la perdita di GPR17 è associata a una ridotta capacità di questi precursori di lavorare attivamente per sostituire la mielina perduta".


Il lavoro, che continua, ha aperto la strada a nuovi studi su come indurre il 'ringiovanimento' delle cellule precursori degli oligodendrociti per reintegrare in modo efficiente la materia bianca perduta. Il dott. Azim dell'Università di Dusseldorf ha dichiarato:

"Questo approccio è promettente per il puntare la perdita di mielina nelle malattie del cervello che invecchia e in quelle da demielinazione, che comprendono la sclerosi multipla, l'Alzheimer e i disturbi neuropsichiatrici. In effetti, abbiamo solo toccato la punta dell'iceberg e le indagini future dei nostri gruppi di ricerca puntano a portare questi risultati nell'ambiente umano".


Il dott. Rivera ha eseguito gli esperimenti chiave pubblicati in questo studio mentre era all'Università di Portsmouth e ha ricevuto il prestigioso MSCA Seal of Excellence @UniPD Fellowship per tradurre questi risultati e indagare ulteriormente su questo principio nel cervello umano, in collaborazione con i professori Raffele de Caro, Andrea Porzionata e Veronica Macchi dell'Istituto di Anatomia Umana dell'Università di Padova.

[...]

 

 

 


Fonte: University of Portsmouth (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: Andrea Rivera, Francesca Pieropan, Irene Chacon‐De‐La‐Rocha, Davide Lecca, Maria Abbracchio, Kasum Azim, Arthur Butt. Functional genomic analyses highlight a shift in Gpr17‐regulated cellular processes in oligodendrocyte progenitor cells and underlying myelin dysregulation in the aged mouse cerebrum. Aging Cell, 5 Mar 2021, DOI

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oligodendrocyte precursor cells white and myelin red

Un nuovo studio guidato dall'Università di Portsmouth ha individuato uno dei principali fattori del deterioramento del cervello correlato all'età: la perdita di una sostanza chiamata mielina.


La mielina è l'involucro protettivo e isolante attorno alla propaggine che trasporta il segnale comunicativo dei neuroni nel cervello, chiamato assone. La mielina è essenziale per gli scambi elettrici superveloci di tra le cellule nervose che sottendono l'enorme potere del cervello umano.


La perdita di mielina si traduce in declino cognitivo ed è centrale per diverse malattie neurodegenerative, come la sclerosi multipla e l'Alzheimer. Questo nuovo studio ha trovato che le cellule che guidano la riparazione della mielina diventano meno efficienti quando invecchiamo e ha identificato un gene cruciale che è colpito maggiormente dall'invecchiamento, riducendo la capacità delle cellule di sostituire la mielina persa.


Lo studio, appena pubblicato su Aging Cell, fa parte di una collaborazione internazionale guidata dal professor Arthur Butt dell'Università di Portsmouth con il dott. Kasum Azim dell'Università di Düsseldorf in Germania, insieme ai gruppi di ricerca italiani della prof.ssa Maria Pia Abbracchio di Milano e del dott. Andrea Rivera di Padova.


Il prof. Butt ha detto:

"Tutti hanno familiarità con la materia grigia del cervello, ma pochissimi conoscono la materia bianca, che comprende i cavi elettrici isolati che collegano tutte le diverse parti del nostro cervello.

"Una caratteristica fondamentale del cervello che invecchia è la progressiva perdita di materia bianca e di mielina, ma le ragioni alla base di questi processi sono in gran parte sconosciute. Le cellule cerebrali che producono mielina - chiamate oligodendrociti - devono essere sostituite per tutta la vita da cellule staminali chiamate precursori di oligodendrociti.

"Se questo processo va male, allora c'è una perdita di mielina e materia bianca, che provoca effetti devastanti sulla funzione cerebrale e un declino cognitivo. Un nuovo risultato entusiasmante del nostro studio è che abbiamo scoperto uno dei motivi per cui questo processo è rallentato nel cervello che invecchia".


Il dott. Rivera, primo autore dello studio quando era all'Università di Portsmouth e ora Fellow all'Università di Padova, ha spiegato:

"Confrontando il genoma del cervello di un topo giovane con quello di un topo senile, abbiamo identificato quali processi sono influenzati dall'invecchiamento. Queste analisi molto sofisticate ci hanno permesso di svelare le ragioni per cui il rifornimento di oligodendrociti, e la mielina che producono, sono ridotti nel cervello invecchiato.

"Abbiamo capito che il gene GPR17, associato a questi precursori specifici, è il più colpito nel cervello invecchiato e che la perdita di GPR17 è associata a una ridotta capacità di questi precursori di lavorare attivamente per sostituire la mielina perduta".


Il lavoro, che continua, ha aperto la strada a nuovi studi su come indurre il 'ringiovanimento' delle cellule precursori degli oligodendrociti per reintegrare in modo efficiente la materia bianca perduta. Il dott. Azim dell'Università di Dusseldorf ha dichiarato:

"Questo approccio è promettente per il puntare la perdita di mielina nelle malattie del cervello che invecchia e in quelle da demielinazione, che comprendono la sclerosi multipla, l'Alzheimer e i disturbi neuropsichiatrici. In effetti, abbiamo solo toccato la punta dell'iceberg e le indagini future dei nostri gruppi di ricerca puntano a portare questi risultati nell'ambiente umano".


Il dott. Rivera ha eseguito gli esperimenti chiave pubblicati in questo studio mentre era all'Università di Portsmouth e ha ricevuto il prestigioso MSCA Seal of Excellence @UniPD Fellowship per tradurre questi risultati e indagare ulteriormente su questo principio nel cervello umano, in collaborazione con i professori Raffele de Caro, Andrea Porzionata e Veronica Macchi dell'Istituto di Anatomia Umana dell'Università di Padova.

[...]

 

 

 


Fonte: University of Portsmouth (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: Andrea Rivera, Francesca Pieropan, Irene Chacon‐De‐La‐Rocha, Davide Lecca, Maria Abbracchio, Kasum Azim, Arthur Butt. Functional genomic analyses highlight a shift in Gpr17‐regulated cellular processes in oligodendrocyte progenitor cells and underlying myelin dysregulation in the aged mouse cerebrum. Aging Cell, 5 Mar 2021, DOI

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Covid-19: perché le persone con disabilità dell'apprendimento hanno più rischio?

covidParlando di persone con disabilità di apprendimento e Covid-19, le statistiche sono schiaccianti. Nel Regno Unito, le persone con disabilità di apprendimento hanno una probabilità almeno 4 volte più alta di morire dalla malattia rispetto alla popolazione...[DEBUG: AutoReadMore fired here]

Perché non abbiamo ancora una cura per l'Alzheimer?

ImagingTauCome ricercatore sul morbo di Alzheimer (MA) e neurologo che si prende cura delle persone con la malattia, condivido la frustrazione, anzi la rabbia, delle persone e delle famiglie quando dico loro che non ho una cura da offrire.Nell'ultimo anno, gli...[DEBUG: AutoReadMore fired here]

Ricerca sulle malattie del cervello rivela le differenze tra i sessi

APB20 RV 00180 image1 768x432Le malattie neurodegenerative umane influenzano uomini e donne in modo diverso, ma il sesso è incluso di rado nei modelli in vitro delle malattie neurodegenerative. Le differenze di genere includono diversi fattori biochimici, di espressione genica e indizi...[DEBUG: AutoReadMore fired here]

C'è un legame tra aspartame e Alzheimer?

L'aspartame è un dolcificante comune senza zucchero presente negli Stati Uniti dai primi anni '80. Si trova in oltre 6.000 prodotti, tra cui Diet Coke, Diet Pepsi, Crystal Light e Kool-Aid. Viene anche venduto con marchi come NutraSweet e Equal.L'uso...[DEBUG: AutoReadMore fired here]

Sono le perdite nella barriera emato-encefalica a peggiorare la memoria?

MIT Blood Brain BarrierHai dimenticato dove hai messo le chiavi? Ti sei mai chiesto dove avevi parcheggiato l'auto? O hai avuto problemi a ricordare il nome del nuovo vicino? Sfortunatamente, queste cose sembrano peggiorare quando si invecchia. Una grande domanda per i...[DEBUG: AutoReadMore fired here]

Perdita di materia grigia nel cervelletto destro può essere legata all'Alzheimer

CerebellumIl cervelletto in rosso.Il nostro cervello ha quattro emisferi (non due)La materia grigia è la 'corteccia' che racchiude sia gli emisferi del cerebro ('corteccia cerebrale') e sia gli emisferi del cervelletto ('corteccia cerebellare').Sfortunatamente...[DEBUG: AutoReadMore fired here]

Aducanumab: FDA dovrebbe approvare questo farmaco, nonostante le perplessità?

Il tempo uccide l'affare, dice il proverbio.E sul fronte del morbo di Alzheimer (MA), per migliorare la cognizione nelle prime fasi della malattia, il più grande affare è il nuovo farmaco aducanumab della Biogen, attualmente in (ri)esame alla Food and...[DEBUG: AutoReadMore fired here]

Cambiamenti negli occhi possono dare un avviso precoce di Alzheimer

OCTA images of retinal capillariesImmagini OCTA dei capillari nella retina di pazienti con Alzheimer familiare. Ricercatori hanno dimostrato un flusso sanguigno anormalmente alto (associato a temperature più calde, come dalla scala a destra) negli occhi delle persone nelle prime fasi della...[DEBUG: AutoReadMore fired here]

È il momento giusto per concentrarsi sulla demenza preclinica

 "Un'altra domanda", è ora l'ultima chance del figlio o della figlia di un paziente al quale ho appena diagnosticato la demenza. Arriva proprio mentre stanno per uscire, quasi un ripensamento.Di solito abbiamo trascorso l'ultima ora a dipingere...[DEBUG: AutoReadMore fired here]

La mamma potrebbe seguirti in giro per la casa a causa di ansia o paura

Cara Carol: Mia madre, di 78 anni, vive con noi. Ha l'Alzheimer e andava bene fino a poco tempo fa, ma ora è peggiorata e mi segue per tutta la casa. Non può sopportare di perdermi di vista, anche quando devo andare in bagno.So che non potrò gestire...[DEBUG: AutoReadMore fired here]

Dove sto andando? Chiedilo semplicemente al tuo subicolum

Studio della Osaka City University ha scoperto che il subicolo nel cervello aiuta a instradare verso le aree a valle le informazioni associate alla navigazione ricevute dall'ippocampo.L'ippocampo è la parte del cervello che ha a che fare con le informazioni...[DEBUG: AutoReadMore fired here]

Studio collega la proteina causa di Alzheimer alla comune perdita della vista

Una ricerca appena pubblicata ha rivelato un collegamento stretto tra le proteine ​​associate al morbo di Alzheimer (MA) e la perdita di vista legata all'età. I risultati potrebbero aprire la strada a nuovi trattamenti per i pazienti con deterioramento...[DEBUG: AutoReadMore fired here]

Prendiamo decisioni in base ai ricordi e non alla precisione?

Quando richiamiamo un ricordo, recuperiamo dettagli specifici su dove, quando, con chi. Ma spesso sperimentiamo anche una vivida sensazione di ricordare l'evento, a volte quasi lo riviviamo. I ricercatori della memoria chiamano questi processi...[DEBUG: AutoReadMore fired here]

Cavalcare l'onda della genetica che forma i ricordi

neuron green ensheathed by an oligodendrocyte purpleNeurone (verde) fasciato da un oligodendrocite (viola), entrambi con materiale genetico 'attivo' (DNA) nel nucleo. Le differenze nel DNA attivo di ciascun tipo di cellula possono essere alla base della memoria umana. Fonte: Melissa LogiesScienziati...[DEBUG: AutoReadMore fired here]

Demenza può essere un fattore di rischio per infezione, ma non per morte da Covid-19

covidLe persone che hanno la demenza hanno un rischio molto più elevato di essere infettate dal COVID-19, ma non più probabilità di morire a causa di esso, rispetto a quelle senza deterioramento cognitivo, secondo una nuova ricerca.Lo studio, presentato dal...[DEBUG: AutoReadMore fired here]

Rischio di demenza sale significativamente con gravità e numero di ictus

hemorhagic vs ischemic strokeSchema dei due tipi più diffusi di ictus: emorragico (sx) e ischemico (destra).Un ictus ischemico aumenta il rischio di demenza e quel rischio aumenta con il numero e la gravità degli ictus, secondo una ricerca preliminare presentata alla Conferenza...[DEBUG: AutoReadMore fired here]

Isolamento del cablaggio del cervello è il fattore principale del deterioramento del cervello da età

oligodendrocyte precursor cells white and myelin redNell'immagine le cellule staminali chiamate 'celle precursori oligodendrociti' (bianco) che generano oligodendrociti per tutta la vita. Gli oligodendrociti producono mielina (rosso) che promuove la trasmissione efficiente degli impulsi dei neuroni isolando...[DEBUG: AutoReadMore fired here]

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