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Cellule immunitarie «estranee» legate all'inizio ritardato della demenza dopo un ictus

Cellule immunitarie «vagabonde» legate all'inizio ritardato della demenza dopo un ictusSnoopy: "La mia mente inizia a vagabondare e io divento inquieto"Dei ricercatori dicono che l'apparizione nel cervello dei linfociti-B, un tipo di cellule immunitarie, è implicato nella demenza ritardata, nei topi e nell'uomo che hanno subìto un ictus.


Un singolo ictus raddoppia il rischio di una persona di sviluppare la demenza nel decennio successivo, anche se la capacità mentale della persona non ne è inizialmente influenzata.


Perché avvenga questo deterioramento ritardato era finora un mistero. Ora dei ricercatori della Stanford University pensano di aver scoperto una delle ragioni principali di questo problema.


Con esperimenti sia su topi modelli di ictus, che su campioni di tessuto cerebrale di esseri umani, essi hanno legato l'insorgenza ritardata della demenza post-ictus alla presenza persistente, nel cervello, di cellule immunitarie specializzate, che non dovrebbero essere lì per niente.


La scoperta potrebbe permettere potenzialmente di sviluppare un modo di identificare le persone a rischio di demenza, dando ai medici il tempo di cercare di allontanare la malattia. I farmaci che possono disattivare queste cellule immunitarie sono già disponibili.


Con circa 800.000 nuovi casi ogni anno, l'ictus è la seconda causa principale di gravi disabilità a lungo termine negli Stati Uniti, generando 74 miliardi di dollari all'anno di costi di trattamento e di assistenza. Dei 7 milioni di sopravissuti all'ictus del paese, un terzo soffre di demenza o ne soffrirà.


In uno studio pubblicato il 4 febbraio in The Journal of Neuroscience, un team diretto da Marion Buckwalter, MD, PhD, assistente professore di neurochirurgia, neurologia e neuroscienze, ha esaminato diversi topi modelli di ictus, così come campioni di tessuti cerebrali umani, e ha trovato una forte evidenza che le cellule produttrici di anticorpi chiamate «linfociti B» hanno un ruolo chiave nella comparsa ritardata della demenza. La Buckwalter è autrice senior dello studio, e il primo autore è l'ex studioso postdottorato Kristian Doyle, PhD.

 

I linfociti-B aiutano, di solito

Di norma gli anticorpi prodotti dai linfociti-B sono di grande valore per noi; circolano in tutto il sangue e la linfa, e si legano agli invasori microbici, bloccando gli schemi nefasti dei patogeni e marcandoli per essere distrutti da altre cellule immunitarie.


Di tanto in tanto, i linfociti-B iniziano erroneamente a generare anticorpi che si legano ai tessuti sani del corpo, causando alcune forme di malattie autoimmuni, come l'artrite reumatoide. Il Rituxan, un farmaco approvato dalla Food and Drug Administration per questa condizione, è in effetti un anticorpo esso stesso: il suo obiettivo è una proteina presente sulla superficie di ogni linfocite-B. L'uso di questo farmaco deprime i linfociti-B nel corpo, alleviando i sintomi dell'artrite reumatoide e di altre malattie mediate dai linfociti-B.


Come quasi tutti gli altri tipi di cellule immunitarie, i linfociti-B sono praticamente inesistenti nel cervello delle persone sane, le cui difese più esterne sono per lo più impermeabili a queste cellule e alle molecole di grandi dimensioni (come gli anticorpi) che altrove circolano liberamente. Ma la barriera emato-encefalica non è del tutto inviolabile ed è resa molto più permeabile dai danni cerebrali.


Due piccoli studi degli ultimi 10 anni hanno citato la presenza sconcertante di un numero considerevole di cellule immunitarie in circa il 50 per cento dei cervelli sottoposti ad autopsia, di persone che avevano subito ictus. Ciò ha indotto la Buckwalter ad esaminare più da vicino il fenomeno.


La Buckwalter è team leader dello Stroke Collaborative Action Network della Stanford, che fa parte dello Stanford Neurosciences Institute, e coordina le attività di ricerca sull'ictus di tutta l'università. Era affascinata da tali studi. Così, con i suoi colleghi, ha intrapreso una serie di esperimenti in topi modelli di ictus. Il gruppo della Buckwalter ha perfezionato le procedure sperimentali in modo che le strutture cerebrali centrali alla cognizione, nei topi, sarebbero inizialmente rimaste intatte dopo un ictus.


"Quando abbiamo esaminato il cervello di questi topi una settimana post-ictus, abbiamo visto la presenza trascurabile di linfociti-B nel nucleo dell'ictus", ha detto al Buckwalter. "Ma dopo 7 settimane, ce n'erano a tonnellate". La presenza di linfociti-B persisteva dopo 12 settimane. Le cellule tendono a raggrupparsi in prossimità del nucleo dell'ictus, dove erano morte le cellule cerebrali normali a causa della mancanza di ossigeno indotta dall'ictus. Una tale infiltrazione dei linfociti-B non era evidente nel cervello di topi sottoposti a una procedura simulata, in cui i loro cervelli non hanno subito alcun ictus.


Gli scienziati hanno inoltre stabilito che i linfociti-B stavano producendo attivamente degli anticorpi e progredivano attraverso vari stadi di sviluppo che caratterizzano tali cellule quando si attivano essendo esposte a materiale estraneo.

[...]

Infine, gli scienziati di Stanford hanno esaminato le autopsie di sezioni di cervello con nucleo dell'ictus di 21 pazienti con ictus, i quali avevano demenza. Dodici di questi contenevano un numero sospettosamente elevato di linfociti-B. Per vedere se la presenza prominente di linfociti-B nel cervello possa essere un evento comune in età avanzata, anche nelle persone sane, essi hanno esaminato campioni di cervello di 9 pazienti di pari età senza storia di ictus o demenza. In questi cervelli, i linfociti-B erano rari.

 

E' necessario più lavoro per arrivare ad una terapia

La Buckwalter ipotizza che i linfociti-B che entrano in un cervello reso accessibile da un ictus possono diventare reattivi al tessuto cerebrale in seguito all'esposizione a sostanze intercellulari rilasciate da cellule morte o morenti, scatenando un ciclo vizioso di diffusione del danno cellulare e di ulteriore attivazione di linfociti-B.


E' probabile che questo accada in una parte, anche se forse rilevante, di pazienti colpiti da ictus, lei avverte, e quindi sarebbe medicalmente errato dosare semplicemente tutti i pazienti con ictus con un farmaco di deplezione dei linfociti-B. Ma lei suggerisce che un composto idoneo a penetrare nel cervello che marca i linfociti-B, o un anticorpo sviluppato per essere rilevato, per esempio, dalla risonanza magnetica, possono aiutare a identificare i candidati per una tale terapia.


"Non siamo ancora lì. Deve essere fatto molto altro lavoro per determinare a chi accade e qual è il momento giusto e il dosaggio del farmaco", ha detto la Buckwalter. "Ma è emozionante pensare che la demenza ad insorgenza ritardata post-ictus, che genera una costo enorme per gli individui e per la società, è potenzialmente curabile".

 

**********
Lo studio è stato finanziato dai National Institutes of Health. Hanno partecipato anche il professore di neurologia Lawrence Steinman, MD; Frank Longo, MD, PhD, professore e presidente di neurologia; il «visiting scholar» Montse Sole, PhD; il ricercatore associato Thuy-Vi Nguyen, PhD; gli studiosi post-dottorato Robert Axtell, PhD, Gilberto Soler-Llavia, PhD, e Sandra Jurado, PhD; e gli assistenti di ricerca Jullet Han e Lisa Quach, tutti della Stanford.

 

 

 

 

 


FonteUniversity of Stanford  (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.

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