Un team guidato da ricercatori della School of Medicine della Stanford University ha scoperto che il più comune fattore di rischio genetico per l'Alzheimer distrugge le funzioni cerebrali delle donne anziane sane, ma ha uno scarso impatto sulla funzione cerebrale di soggetti sani e uomini anziani.
Le donne portatrici della variante del gene, noto per essere un fattore di rischio per l'Alzheimer, mostrano variazioni cerebrali caratteristiche della malattia neurodegenerativa che può essere osservata prima che si manifesti un qualsiasi sintomo esterno.
Sia gli uomini che le donne che ereditano due copie (uno da ciascun genitore) di questa variante del gene (chiamato ApoE4), hanno un rischio estremamente elevato di Alzheimer. Ma la combinazione di doppio ApoE4 è rara, colpisce solo il 2 per cento della popolazione, mentre il 15 per cento circa di persone porta una sola copia di questa versione del gene.
I ricercatori della Stanford hanno dimostrato per la prima volta l'esistenza di una distinzione di genere tra gli anziani esteriormente sani, portatori della variante di ApoE4. In questo gruppo, le donne, ma non gli uomini, presentano due caratteristiche inconfondibili che sono state collegate all'Alzheimer: un cambiamento tipico nell'attività cerebrale, e livelli elevati di una proteina chiamata tau nel liquido cerebrospinale. Una delle implicazioni dello studio, pubblicato il 13 giugno sul Journal of Neuroscience, è che gli uomini, i cui test genetici hanno rivelato essere portatori di una singola copia dell'ApoE4, non dovrebbero essere considerati a rischio elevato di Alzheimer, una sindrome che affligge circa 5 milioni di persone negli Stati Uniti e quasi 30 milioni nel mondo.
"Le nuove scoperte possono anche aiutare a spiegare perché le donne sviluppano questa malattia più degli uomini", ha detto Michael Greicius (foto), MD, assistente professore di neurologia e scienze neurologiche e direttore medico del Centro di Stanford dei disturbi della memoria. Ancora più criticamente, individuando le interazioni primarie tra l'ApoE4 e il genere, apre una serie di nuove strade sperimentali che permetteranno al gruppo di Greicius e al settore in generale di capire meglio come l'ApoE4 aumenta il rischio di Alzheimer.
"Per ogni tre donne con Alzheimer, solo due uomini hanno la stessa malattia neurodegenerativa", ha detto Greicius, autore senior dello studio (il primo autore è Jessica Damoiseaux, PhD, studiosa postdoctoral nel laboratorio di Greicius. Hanno collaborato con colleghi dell'Università della California-San Francisco e dell'UCLA). "È vero, le donne vivono più a lungo rispetto agli uomini, in media, e la vecchiaia è di gran lunga il maggiore fattore di rischio per l'Alzheimer", ha detto Greicius. "Ma la disparità nel rischio di Alzheimer persiste anche se si corregge con la differenza di longevità", ha detto. "Questo diverso impatto dello stato dell'ApoE4 delle donne rispetto agli uomini potrebbe giustificare una grande parte del rapporto distorto tra generi".
Oltre all'età, un altro importante fattore di rischio ben studiato è genetico: il possesso di una particolare versione del gene chiamato ApoE. Questo gene è la ricetta per una proteina coinvolta nel trasporto del colesterolo nelle cellule - un lavoro importante, poichè il colesterolo è un costituente fondamentale di tutte le membrane cellulari, comprese quelle delle cellule nervose. E le cellule nervose rispondono costantemente all'esperienza, sviluppando o incrementando o diminuendo o abolendo i piccoli contatti elettrochimici a forma di bulbo con altre cellule nervose. Per tutti questi processi, l'efficiente trasporto del colesterolo è un fattore critico.
La proteina ApoE è disponibile in tre versioni, ognuna delle quali è il prodotto di una versione leggermente diversa del gene ApoE: E2, E3 e E4. La maggior parte delle persone ha due copie della versione E3 di ApoE. Una piccola percentuale porta una copia di E3 e una di E2, e ancor meno due copie di E2. La proteina specificata dalla versione E4 del gene sembra essere un po difettosa in confronto a quella codificata da una E2 o dalla molto più comune E3. Quindi mentre solo il 10-15 per cento circa della popolazione porta una copia di E4 (o, meno comunemente, due), oltre il 50 per cento delle persone che sviluppano l'Alzheimer sono portatori di E4.
Ma, a quanto si scopre, il rischio accresciuto che l'E4 impone può essere in gran parte limitato alle donne. Per dimostrarlo, gli scienziati hanno prima eseguito scansioni MRI funzionale di 131 persone sane, con un'età mediana di 70 anni, per esaminare le connessioni nella rete di memoria del cervello. Hanno usato sofisticate analisi di visualizzazione cerebrale per mostrare che nelle donne anziane portatrici della variante E4, questa rete di regioni cerebrali interconnesse, che normalmente condividono un modello sincronizzato di attività, presentano una perdita di quella sincronia - un modello tipico dei pazienti di Alzheimer. Nelle donne anziane sane (ma non negli uomini) con almeno un allele E4, l'attività in una zona del cervello chiamata precuneo sembra essere fuori sincronia con le altre regioni i cui modelli di funzionamento sono strettamente coordinati in generale.
La tecnica di scansione che Greicius e colleghi hanno utilizzato è nota come risonanza magnetica a connettività funzionale (fcMRI). Effettuata su soggetti a "riposo", che restano svegli nello scanner, ma non concentrati su un particolare compito, la fcMRI può discernere sull'ordine di 20 reti cerebrali diverse, ognuna composta da un insieme di regioni cerebrali disperse che sono fisicamente collegate da vie nervose e i cui impulsi di attività sono sincronizzati, o in fase. Greicius, Damoiseaux ed i loro collaboratori hanno dimostrato in precedenza che il modello di innesco sincrono di una rete in particolare, fondamentale per la funzione di memoria e conosciuto come "rete in modalità predefinita", è puntato specificamente dall'Alzheimer e si deteriora con il progredire della malattia.
Per confermare in modo indipendente le loro osservazioni basate su scansioni, gli scienziati hanno valutato le registrazioni di un vasto database compilato dall'Alzheimer's Disease Neuroimaging Initiative, uno studio multi-sito sull'invecchiamento sano e l'Alzheimer. Lo studio della Stanford si è focalizzato su volontari sani da 55 a 90 anni che avevano accettato di sottoporsi ad un prelievo spinale e all'analisi del relativo liquido cerebrospinale (CSF).
Dal database il gruppo di Greicius ha estratto le registrazioni di 91 soggetti, con un'età media di 75 anni, li ha divisi in quattro gruppi che rappresentano le donne con o senza una copia della variante E4, e gli uomini con o senza una copia. Per ogni gruppo, hanno controllato le concentrazioni rilevate di una proteina chiamata tau nel liquido cerebrospinale di questi soggetti. Livelli elevati di tau nel liquido cerebrospinale sono un biomarcatore chiave dell'Alzheimer. I risultati (il CSF delle donne, non degli uomini, portatrici di almeno un allele E4 era notevolmente arricchito di tau) ha confermato i risultati delle scasioni cerebrali.
I risultati della tau costituiscono un'altra primizia. "E' stato possibile a vedere queste differenze nei livelli di tau, solo quando abbiamo separato i pazienti in base al sesso", ha detto Greicius.
Da notare che tutti gli uomini e le donne che partecipano allo studio del Journal of Neuroscience sono stati valutati nello stato cognitivo. Sono stati ammessi solo quelli con capacità di pensare e ricordare apparentemente normali per la loro età. In questo modo, i cambiamenti osservati nell'attività cerebrale e nella composizione del CSF avvenivano ben prima della comparsa dei sintomi classici di Alzheimer, quali perdita di memoria, disorientamento e demenza. "Un giorno potrebbe essere pratico usare la fcMRI, che è non invasiva, invece del prelievo nella colonna vertebrale, come strumento diagnostico", ha detto Greicius.
Lo studio è stato finanziato dalla Fondazione Hillblom, dal John Douglas French Alzheimer's Disease Foundation, dalla Fondazione JNA e dal National Institutes of Health. William Shirer, direttore del laboratorio Greicius, e diversi collaboratori dell'UCSF e dell'UCLA hanno collaborato allo studio.
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Pubblicato da Bruce Goldman in Med.Stanford.edu il 12 Giugno 2012 - Traduzione di Franco Pellizzari.
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