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La saliva può aiutare a diagnosticare l'Alzheimer

La saliva può aiutare a diagnosticare l'AlzheimerLa saliva potrebbe rivelare una probabile candidatura allo sviluppo dell'Alzheimer.


Questo per lo meno è quello che sperano dei ricercatori canadesi, il cui studio suggerisce che l'analisi di alcuni composti chimici della saliva potrebbe essere un modo economico e non invasivo per sapere se il cervello ha iniziato a subire i cambiamenti che culminano nella perdita della memoria e della funzione cognitiva.


Il loro studio è uno dei tanti a cercare nuovi biomarcatori, che sono stati presentati ieri Domenica 19 Luglio 2015, il primo dei 5 giorni della Conferenza Internazionale dell'Alzheimer's Association nel Distretto.


Altre ricerche sui biomarcatori stanno esaminando la possibilità di analizzare il fluido cerebrale per trovare la presenza elevata di neurogranina, una proteina che si trova solo nel cervello e ha un ruolo importante nella conduzione dei segnali tra le sinapsi delle cellule nervose, oppure l'uso di scansioni PET per identificare l'infiammazione, che può essere fatale per il tessuto cerebrale.


L'incontro scientifico - che raccoglie circa 4.500 ricercatori da tutto il mondo - arriva nel momento in cui diverse nazioni sviluppate si trovano ad affrontare popolazioni sempre più anziane. Più di 5 milioni di persone vivono con l'Alzheimer negli Stati Uniti, un numero destinato a crescere a 13,5 milioni entro il 2050.


Con circa 10.000 baby boomer che passano i 65 anni tutti i giorni, i ricercatori e gli attivisti di Alzheimer dicono che gli Stati Uniti hanno bisogno di intensificare la ricerca per trovare una cura o dei trattamenti, prima che comincino ad andare fuori controllo i costi per i familiari e il governo federale, via Medicare. Un passo avanti implica trovare i modi per diagnosticare meglio la malattia, soprattutto nelle fasi iniziali, prima della comparsa dei sintomi. Ed è anche probabile che comporti un approccio su più fronti.


Tra le altre presentazioni di Domenica, ad esempio, i neurologi della Facoltà di Medicina della New York University hanno presentato i dati di una nuova classe di farmaci che punta le proteine mal ripiegate, un fenomeno biologico che è comune a diverse malattie neurodegenerative.


Fernando Goni, professore a contratto del Dipartimento di Neurologia della NYU, ha detto che i nuovi dati suggeriscono una classe di anticorpi monoclonali che si legano alle proteine dalla forma alterata, come l'amiloide-beta e la tau (due caratteristiche distintive dell'Alzheimer), così come alle proteine anomale che si trovano nelle persone con demenza a corpi di Lewy o con Parkinson.


Si sta dando molta attenzione anche alla ricerca di nuovi biomarcatori affidabili di Alzheimer. Poiché la fase preclinica della malattia può durare fino a 20 anni, gli scienziati stanno dedicando maggiore attenzione alla ricerca delle modalità che possono determinare se una persona è a rischio ben prima che si verifichi la perdita di memoria o la compromissione cognitiva.


La capacità di sviluppare metodi di screening facile per loro potrebbe consentire ai medici di intervenire in modo da ritardare o impedire un giorno l'insorgenza della demenza. E' anche cruciale migliorare la ricerca farmaceutica, poichè le aziende farmaceutiche sono particolarmente interessate a identificare le persone a rischio e a iscriverle in studi clinici per testare l'efficacia di possibili trattamenti.


Negli ultimi anni, gli scienziati hanno riferito scoperte su una serie di possibili biomarcatori legati ai cambiamenti che l'Alzheimer provoca nel cervello. Qualcuno potrebbe coinvolgere una scansione degli occhi o un test cutaneo per niente invasivi. Ma i documenti dei test sono più promettenti che risolutivi.


Domenica, Shraddha Sapkota, studente laureato in neuroscienze all'Università di Alberta, ha detto che il suo team ha studiato la presenza nella saliva di metaboliti - che sono sottoprodotti molecolari del metabolismo - per vedere se potevano essere un indicatore precoce affidabile delle variazioni del metabolismo nel cervello che segnalano anche le fasi iniziali dell'Alzheimer.


Usando la cromatografia-spettrometria di massa liquida per analizzare i campioni, i ricercatori hanno distinto tra i gruppi di partecipanti che stavano invecchiando normalmente, quelli affetti da decadimento cognitivo lieve, o quelli che avevano già la diagnosi di Alzheimer. Sapkota ha detto che il suo team ha anche scoperto che livelli più elevati di metaboliti specifici nella saliva si correlano alle evidenze di declino delle capacità cognitive. "Perciò questo è promettente. Dice a un medico, in uno studio medico normale, che questa persona dovrebbe fare ulteriori test", ha detto Maria C. Carrillo, direttrice scientifica dell'Alzheimer's Association.


Altri scienziati sono stati più cauti. Creighton H. "Tony" Phelps, direttore del programma Alzheimer’s Disease Centers del National Institute on Aging, ha detto che sarebbe meraviglioso se i medici potessero magari chiedere a qualcuno di sputare in una tazza o sottoporsi ad un tampone orale e stabilire se la persona ha un rischio maggiore di demenza. Ma la ricerca sembra preliminare, ha detto. "L'idea è buona. E spero che un giorno saremo in grado di realizzarla. Ma abbiamo avuto molto sfortuna con questi gruppi di biomarcatori", ha detto Phelps.


Marilyn Albert, direttrice della Divisione di Neuroscienze Cognitive del Dipartimento di Neurologia della Johns Hopkins University, ha presentato Domenica una informativa che il suo team sta valutando una serie di strumenti diagnostici disponibili e ha scoperto che circa sei misure sono particolarmente utili nel predire quali persone cognitivamente normali potrebbero sviluppare l'Alzheimer entro cinque anni. Tra le misure più utili ci sono il test «Digit Symbol» e il «Paired Associates Immediate Recall», che misurano la memoria e la cognizione; l'analisi del liquido cerebrospinale per la presenza di amiloide-beta e tau, che sono le due proteine anomale che contraddistinguono la presenza dell'Alzheimer; e le scansioni MRI che valutano volume o spessore, rispettivamente, dell'ippocampo e della corteccia entorinale destra, che sono parti del cervello fondamentali per la memoria.


In un altro tentativo di scoprire nuovi biomarcatori, un team olandese di scienziati ha esplorato il legame tra l'Alzheimer e una proteina coinvolta nell'invio di messaggi tra le cellule cerebrali. Charlotte E. Teunissen, ricercatrice del VU Medical Center di Amsterdam, ha detto che il suo team ha studiato la neurogranina come possibile nuovo biomarcatore per la diagnosi precoce dell'Alzheimer.


Anche se le sue proprietà non sono chiare del tutto, la neurogranina ha un ruolo importante per aiutare i neuroni a comunicare tra le sinapsi. Usando campioni di liquido cerebrospinale (un liquido trasparente che funge da cuscinetto biologico e meccanico per il cervello e il midollo spinale) gli scienziati hanno scoperto che i livelli di neurogranina erano significativamente più alti nelle persone con Alzheimer, rispetto a quelle cognitivamente normali.


I ricercatori hanno usato degli aghi per prelevare due campioni di liquido cerebrospinale dalla schiena di 163 persone, di cui 37 cognitivamente normali, 61 che mostravano segni di decadimento cognitivo lieve e 65 che avevano già la diagnosi di Alzheimer.


I partecipanti hanno dato due campioni di liquido cerebrospinale, ciascuno a circa due anni di distanza. I ricercatori hanno scoperto livelli più elevati di neurogranina nelle persone con Alzheimer. Livelli in aumento di neurogranina riuscivano anche a prevedere la progressione dal lieve deficit cognitivo alla demenza. I livelli si sono correlati con la presenza di tau e ptau-181, che sono proteine legate all'Alzheimer.


Bastian Zinnhardt, ricercatore dell'Università di Muenster e dell'Istituto Europeo di Invecchiamento Molecolare, ha presentato una ricerca secondo la quale le scansioni con tomografia ad emissione di positroni (PET) potrebbero puntare l'infiammazione nel cervello come un possibile segno precoce dell'Alzheimer - e forse un giorno permettere di usare un metodo tipo Cavallo di Troia per trattare la malattia.


Le scansioni, che usano composti radioattivi che si legano ai recettori o ad altri obiettivi nel cervello, sono stati usati per focalizzare le cellule microgliali. Queste ultime sono corpi immuni che operano nel cervello come un esercito di equipaggi di demolizione e di netturbini, a fluttuazione libera. Alcune di loro hanno la capacità di innescare una risposta infiammatoria, oppure di inibire l'infiammazione. Alcune di esse possono, in effetti, sia uccidere che proteggere le cellule del cervello.


Fino ad ora, tuttavia, le scansioni PET sono riuscite solo a puntare una proteina prodotta a livelli elevati dalle cellule microgliali attivate. Ma è stato difficile puntare i tipi specifici di microglia che proteggono o danneggiano il tessuto cerebrale, ha detto Zinnhardt. Ma identificando nuovi recettori-bersaglio sulle cellule microgliali, il team di Zinnhardt sembra più vicino a distinguere tra buoni e cattivi, aprendo potenzialmente la strada all'identificazione di trattamenti per ripristinare l'equilibrio tra i due.


Phelps ha detto che trovare l'infiammazione in specifiche aree del cervello legate a memoria e cognizione potrebbe servire come biomarcatore utile dell'Alzheimer. Ma ha anche detto che i composti chimici che aiutano a illuminare quelle aree di infiammazione potrebbero anche essere modificati e usati per inviare prodotti chimici che si legano a quelle cellule microgliali e, a seconda che siano amiche o nemiche, aumentarle o distruggerle.

 

 

 


Fonte: Fredrick Kunkle in Washington Post (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.

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