Mio marito diceva: "Se mai arrivassi a quel punto, non hai che da darmi una botta in testa". Voleva dire praticargli l'eutanasia: "Quando la vita non vale più la pena di essere vissuta: aiutami a finirla". Che è folle. Perché non posso farlo. E non l'ho fatto. Sarebbe illegale. E sarebbe impensabile.
Il suo approccio è più premuroso ora; l'esperienza di convivere con qualcuno che ha la demenza ti costringe a ripensare le opinioni che avevi da tempo. E ripensare, con riflessione attenta, i possibili scenari futuri. Soprattutto perché li rende reali e ne delinea meglio i contorni.
Lui dice: "Se potessi semplicemente finire la vita, se avessi la demenza, se, quando, senti che la qualità della tua vita non vale la pena ...". "Ma non puoi", gli ricordo, "Nel momento in cui non vale più la pena vivere, avrai perso tutto il libero arbitrio".
E penso alla confusione di Julianne Moore in Still Alice quando non è in grado di seguire le istruzioni del suicidio che si era lasciata lei stessa molto prima che l'Alzheimer ad esordio precoce la colpisse.
Quando hai perso quella qualità di vita (i ricordi, le storie, l'equilibrio, la capacità di camminare, la comprensione per seguire qualcosa in televisione, capire una conversazione, quando sei incontinente, non puoi nutrirti di cibo, non puoi più assaggiare) avrai anche perso i tuoi poteri di ragionamento. Avrai perso la funzione esecutiva e sicuramente avrai perso la capacità di seguire qualcosa come le indicazioni attentamente scritte e archiviate dalla Moore.
Probabilmente avrai anche perso il desiderio di morire: sono spesso sorpreso dalla presa tipo-morsa di mia madre sulla vita. Come se nel perdere una cognizione più elevata, il suo istinto primordiale a sopravvivere non sia solo quanto rimane, ma fosse spuntato come un fungo e fosse diventato urgente in assenza di tutto il resto.
Se non puoi fare il necessario per finirla da solo e, visto che è illegale per chiunque altro farlo per te, cosa fare? Io e mio marito meditiamo questo dilemma per un po'. Poi dico: "Non voglio che tu ti prenda cura di me". Voglio dire, non voglio che sia lui quello che mi fa il bagno, mi dà da mangiare, me veste, mi asciuga.
Non voglio l'uomo con cui ho vissuto per decenni - marito, compagno, partner, amante, amico - alla brutta fine di tutto questo. Voglio che i suoi ricordi di noi restino intoccati da una malattia che inizia dimenticando. La demenza di mia madre l'ha ridotta al punto che non rimane quasi nulla, e allo stesso tempo, ha eroso i miei ricordi di lei. La morte dei mille tagli, la chiama mio marito.
"Una casa di cura o un caregiver a pagamento", dico, "ma non tu". È d'accordo: "Anch'io", dice, "non tu". Non voglio nemmeno che i nostri figli si prendono cura di me, dico. Nemmeno io, annuisce lui.
Non ho mai fatto questa conversazione con la mamma. Non mi è mai venuto in mente di chiederle: "Cosa dovremmo fare con te se non sarai più tu, mamma?". Pensavo che si aspettasse che mi prendessi cura di lei quando l'ho sentita dire, durante una visita a un vecchio amico in una casa di cura, "Ti prego, Dio non farmi mai finire in questo modo".
Credevo che intendesse "non mettermi mai in un posto come questo". Ma riflettendo, penso che potrebbe essere stato un appello: "Non lasciarmi mai finire così", perché vedeva ospiti piegati, bocche aperte, sguardi assenti e fissi. Alcuni gemevano come a volte fa lei ora. Piccoli miagolii lamentosi come animali in trappola.
"Assicurati", esorto mio marito, "che io abbia un gatto seduto in grembo, una vista da guardare, un cane ai miei piedi, un bicchiere di vino o due, la sera, e rotolami ogni tanto una sigaretta". E che possa assaggiare la carta di liquirizia con cui arrotolavamo il tabacco al tempo. Allora, quando eravamo giovani, immortali e sconsiderati.
Assicurati di avere la prescrizione per un farmaco che gestisce il mio umore. Non lasciarmi triste. Non lasciarmi nella paura. Se non riesco a dormire la notte, assicurati che io possa farlo.
"E toglimi tutti gli altri medicinali prescritti", aggiunge mio marito: "Tutto ciò che mi tiene in vita: statine, fluidificanti, pillole per ipertensione. Cestinali tutti". Assicurati che ci sia un DNR (do not resuscitate, non riportarmi in vita) in atto: non voglio essere riportato in vita se la natura è intervenuta per portarmi via.
Dobbiamo dirlo ai bambini, dico. "Dobbiamo", concorda lui e mi stringe la mano. Lo scriverò, gli dico: “Scriverò tutto e lo firmeremo. In modo che lo sappiano. In modo che sappiano anche se dimentichiamo. Anche se dimentichiamo questa conversazione". Sì, dice, "fallo".
Fonte: Anthea Rowan in Psychology Today (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.
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