L'Alzheimer distrugge delle vite. E poichè viviamo più a lungo, ne distruggerà di più ogni anno che passa. E distrugge anche le finanze. In America, nel 2010, il costo del trattamento dei pazienti con demenza è stato di 109 miliardi di dollari.
Cifra che supera il costo del trattamento di quelli con malattie cardiache o di cancro. La RAND Corporation, un think-tank californiano, calcola che il costo sarà più che doppio entro il 2040. Per l'Alzheimer è quindi necessario un trattamento, per motivi sia fiscali che umanitari.
In teoria, svilupparne uno non sembra un compito troppo difficile. Uno dei principali sintomi fisici della malattia è l'accumulo nel cervello di grumi appiccicosi, o "placche". Questi sono composti di frammenti proteici (peptidi) chiamati amiloide-beta. Si è pensato, da parte di molti, che se potessimo rimuovere queste placche, o, meglio, impedire che si formino, potremmo allieviare la confusione e la perdita di memoria, le principali manifestazioni esteriori dell'Alzheimer. E' solo una questione di inventare un farmaco che può farlo.
Solo ...?! Un esperimento dopo l'altro è fallito, al punto che i ricercatori sono disperati. Ma ci provano ancora. Un articolo pubblicato questa settimana in Proceedings of the National Academy of Science descrive un altro tentativo. Invece di attaccare direttamente il peptide, Stuart Lipton del Sanford-Burnham Medical Research Institute di La Jolla in California, ed i suoi colleghi, stanno cercando di fermare i suoi effetti. Nel farlo hanno caratterizzato in maggiori dettagli il modo in cui il peptide provoca i danni. Il che significa che, anche se il loro approccio specifico alla fine fallisce, avranno contribuito a tracciare un sentiero attraverso i boschetti di placche che altri possono seguire.
Cattive connessioni
I farmaci sperimentali destinati ad attaccare l'amiloide-beta direttamente si sono dimostrati deludenti. Lo scorso anno le sperimentazioni cliniche dei due di tali farmaci più avanzati non hanno rallentato il declino della memoria della maggior parte dei pazienti, anche se il solanezumab della Eli Lilly ha ottenuto alcuni risultati positivi in un gruppo di pazienti con Alzheimer lieve. Un approccio migliore potrebbe essere la prevenzione. Alcuni gruppi di ricercatori stanno quindi testando il solanezumab per vedere se aiuta gli anziani senza segni clinici dell'Alzheimer, ma le cui scansioni cerebrali rivelano livelli anormali di amiloide-beta.
Testare farmaci in questo modo (per capire se possono impedire a una malattia di partire) è un campo etico minato, perché significa sperimentare su persone che sono, a tutti gli effetti, in buona salute. Si stanno comunque facendo altri esperimenti. La Roche, una ditta farmacologica svizzera, sta lavorando con una grande famiglia in Colombia i cui membri sono in gran parte portatori di una mutazione che garantisce l'insorgere della malattia. E un consorzio di ricercatori in America, Australia, Gran Bretagna e Germania sta testando l'effetto di farmaci anti-amiloide sulle persone con mutazioni che inducono l'Alzheimer.
In questi due casi la quasi certezza dei problemi futuri per le persone coinvolte fa svanire il dilemma etico. Ma non c'è alcuna garanzia che, anche se questi studi funzionano, potranno fare luce sull'intero problema. Nessuno ha ancora chiarito del tutto quanto l'Alzheimer indotto da mutazione (ndt: quello famigliare] assomiglia alla forma più comune, quella "sporadica". Un trattamento per il primo potrebbe non funzionare necessariamente sul secondo.
Il dottor Lipton ed i suoi colleghi stanno cercando invece di spiegare come produce il suo danno l'amiloide-beta, e come esso potrebbero essere fermato. Hanno iniziato dall'osservazione che il peptide sembra produrre i suoi danni soprattutto sulle sinapsi sensibili al glutammato. Una sinapsi è una connessione tra due neuroni, attraverso cui inviano molecole messaggere chiamate neurotrasmettitori, disponibili in diverse varietà, di cui il glutammato è una. A livelli normali, il glutammato supporta la formazione della memoria. Ma l'eccesso di glutammato innesca una cascata di attività preoccupante. Precedenti ricerche hanno suggerito che alti livelli di questa roba, in combinazione con molecole recettoriali iperattive chiamate recettori eNMDA, potrebbero avere la colpa dei problemi dell'Alzheimer.
All'inizio, il dottor Lipton ha dimostrato l'effetto dell'amiloide sul glutammato. Lui ed i suoi colleghi hanno aggiunto amiloide-beta a colture di astrociti, un tipo comune di cellula del cervello che aiuta a supportare i neuroni. Il dottor Lipton ha scoperto che l'amiloide-beta induce gli astrociti a rilasciare grandi quantità di glutammato. Ha osservato anche lo stesso fenomeno nel cervello dei topi vivi.
Successivamente ha dimostrato gli effetti di questi elevati livelli di glutammato. In una cultura di astrociti e neuroni derivati da cellule staminali umane, ha verificato se le sinapsi si attivavano correttamente. No, non lo facevano. Il gruppo ha visto abbassarsi notevolmente il tasso di segnalazione dei neuroni esposti all'amiloide-beta (e quindi con molto glutammato). Questo sembra essere spiegato dall'effetto provocato dall'eccesso di glutammato sui recettori eNMDA. Il neurotrasmettitore provoca iperattività in questi recettori, iniziando un flusso di ioni di calcio nel neurone. Che, a sua volta, induce la creazione di livelli tossici di ossido nitrico, caspace-3 e proteine tau aggrovigliate, tre patologie già implicate nella degenerazione delle sinapsi.
Un farmaco chiamato memantina (del cui sviluppo è responsabile il dottor Lipton, che ammette "non funziona molto bene") aveva solo un piccolo effetto sulla iperattività dei recettori. Ma combinando la memantina con un frammento di un altro farmaco, la nitroglicerina, il dottor Lipton ha avuto più fortuna. La memantina ha portato la nitroglicerina al neurone malato; la nitroglicerina si è poi attaccata ai recettori eNMDA e ne ha smorzato l'attività. Con il conseguente successivo miglioramento della segnalazione tra sinapsi. Il farmaco combinato del dottor Lipton, soprannominato nitromemantina, ripristina anche le sinapsi di topi con Alzheimer.
Tutto questo suona interessante. Ma è necessaria cautela. Molti farmaci di Alzheimer hanno avuto successo negli animali, dimostrandosi inefficaci nelle persone. Farmaci promettenti sono anche naufragati su problemi di sicurezza o problemi tecnici. L'anno scorso, per esempio, uno studio in Science riferiva che il bexarotene, un farmaco approvato per l'uso contro il cancro della pelle, potenzia la produzione di ApoE, una proteina che cancella l'amiloide-beta nei topi. Ma a Maggio un altro gruppo di ricercatori, anch'essi in un articolo su Science, hanno detto che non erano riusciti a replicare questo risultato. Ed il 13 Giugno la Eli Lilly ha detto di voler fermare la sperimentazione clinica di un farmaco progettato per fermare la produzione di amiloide-beta. La sostanza in questione aveva mostrato di danneggiare il fegato.
La strada per un trattamento efficace per l'Alzheimer, quindi, rimane difficile come sempre.
Pubblicato in The Economist (> English version) - Traduzione di Franco Pellizzari.
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