Nella guerra contro l'Alzheimer, uno dei grandi avversari è la proteina amiloide-beta (Aβ).
In un cervello malato, i filamenti appiccicosi formati dalla proteina si raggruppano in placche, che uccidono le cellule nervose e soffocano gli spazi tra di loro.
Al microscopio le placche hanno un aspetto sinistro, anche per un occhio non addestrato: macchie scure disordinate, spruzzate sul tessuto sano.
Gli scienziati, conoscendo il danno che può causare l'Aβ, hanno cercato terapie per eliminare la proteina dal cervello dei malati di Alzheimer. Finora, tutti gli studi clinici con questo approccio hanno fallito. Anche se due esperimenti sono ancora in corso, l'Alzheimer rimane una malattia senza prevenzione, trattamento o cura.
Ora Carmela Abraham, professoressa di biochimica e di medicina, e un team di scienziati della MED hanno scoperto un nuovo modo per attaccare l'Aβ. Invece di eliminarla dal cervello, gli scienziati hanno scoperto un composto che impedisce al corpo proprio di produrla.
Essi hanno presentato un'anteprima inedita della loro scoperta alla riunione annuale della Society for Neuroscience il 19 ottobre 2015. Il lavoro, finanziato dall'Alzheimer's Association e dal Cure Alzheimer's Fund, può portare ad un nuovo trattamento per questa malattia mortale.
"L'Alzheimer è ora l'assassino numero sei degli adulti negli Stati Uniti. I morti per cancro al seno e malattie cardiache continuano a calare, ma quelli per Alzheimer aumentano ogni anno", dice la Abraham. "Prendersi cura dei malati di Alzheimer costa oltre 200 miliardi di dollari all'anno. La stima per il 2050 è 1.100 miliardi di dollari, il che significa che riuscirà a distruggere completamente il sistema di assistenza sanitaria. Dobbiamo trovare un farmaco".
Il cervello crea l'Aβ con enzimi che tagliano in pezzi più piccoli una proteina più grande, chiamata «proteina precursore dell'amiloide» (APP). A volte, per ragioni che gli scienziati non capiscono, due proteine APP si uniscono con un processo chiamato «dimerizzazione», che alla fine porta ad un aumento dell'Aβ. La Abraham si è chiesta: se se gli scienziati potessero fermare la dimerizzazione, si potrebbe fermare l'Aβ nel suo percorso?
Ha deciso di provare. Lavorando con il Laboratory for Drug Discovery in Neurodegeneration di Harvard, il team della Abraham ha selezionato 77.000 molecole che si riteneva potessero influenzare la dimerizzazione dell'APP. Si sono concentrati sulle piccole molecole, perché quelli più grandi non attraversano facilmente la barriera emato-encefalica.
"Se si vuole per curare le malattie del cervello, abbiamo bisogno di piccole molecole", dice la Abraham. "Se si usano molecole di grandi dimensioni, come gli anticorpi, solo una piccola percentuale riuscirà ad entrare nel cervello, e possono avere effetti enormi sul resto del corpo".
La selezione dei farmaci è arrivata ad un punto significativo. La Abraham ha mostrato la molecola al suo collega John Porco, professore di chimica e direttore del Center for Molecular Discovery della BU. Porco ha identificato la molecola quasi subito: era un inibitore della chinasi. Queste bloccano l'azione di enzimi chiamati chinasi, che sono comuni in molti processi cellulari.
"Eureka! Questo era il grande momento", dice la Abraham. "Una volta che abbiamo capito che cosa faceva la molecola, potemmo cercare di vedere quale chinasi inibisce e comprendere meglio il meccanismo". Il lavoro successivo ha scoperto che la molecola agiva su una chinasi in un complesso di cellule di segnalazione più grande. La Abraham si augura che la ricerca troverà l'enzima che agisce direttamente sull'APP. "Quello sarebbe il bersaglio", dice.
Il suo team, che comprende Ella Zeldich (postdottorato), Cidi Chen (professore assistente di ricerca) e Lauren Brown (assistente di ricerca professore di chimica), è ora alla ricerca di molecole simili che possono funzionare ancora meglio, e di altre molecole nel percorso che possono anch'esse diventare bersagli farmacologici.
L'obiettivo finale, dice la Abraham, è un farmaco efficace che ora non esiste: "In questo momento non c'è nulla. Dobbiamo trovare qualcosa di nuovo".
Fonte: Barbara Moran in Boston University (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.
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