Marjie Popkin credeva che le terapie chemio per trattamento del suo cancro ovarico, fossero la fonte del suo stato mentale confuso e delle tante dimenticanze che la affliggevano. Non pensava in modo chiaro, aveva difficoltà con i numeri, dimenticava le cose che aveva appena sentito.
Un medico dopo l'altro respingeva le sue lamentele. Fino a poco tempo fa, prima di compiere 62 anni, andava bene e non aveva problemi a prendersi cura di se stessa, quindi avrebbe potuto smettere di preoccuparsi di trovare una spiegazione.
L'anno scorso, però, la signora Popkin, ancora turbata da quello che stava accadendo alla sua mente, è andata dal dottor Michael Rafii, neurologo dell'Università di California, San Diego, che non solo le fece un accurato esame neurologico, ma le ha prescritto nuovi test, come la risonanza magnetica che valuta il volume delle aree cerebrali fondamentali, e un prelievo alla colonna spinale.
Alla fine le disse che c'era qualcosa di sbagliato. E non era a causa della chemio cerebrale. Più probabilmente era Alzheimer. Anche se sembrava in fase molto precoce, tutti gli indicatori puntavano in quella direzione. Fino a poco tempo fa, l'immagine dell'Alzheimer era la persona con demenza evidente, con lo sguardo a volte vuoto, incapace di seguire una conversazione o di ricordare un impegno.
Ms. Popkin non è nulla di tutto questo. Per un osservatore casuale, la distinta signora Popkin, con il suo aspetto curato, sembra perfettamente a posto. Lei è l'avanguardia di una nuova generazione di malati di Alzheimer, ai quali una diagnosi trova i segni della malattia anni prima che la demenza faccia la sua effettiva apparizione.
Ma i nuovi test diagnostici stanno portando ad un dilemma morale. Dal momento che non esiste alcun trattamento per il morbo di Alzheimer, è una buona cosa dire alla gente, anni prima, che hanno questa malattia progressiva degenerativa del cervello o che hanno buone possibilità di contrarla? "Sono alle prese con la questione," dice il Dott. Rafii. "Io comunico loro la diagnosi - siamo abbastanza bravi a diagnosticare la malattia adesso. Ma è difficile perché: cosa facciamo dopo?"
E' un dilemma che è emblematico di grandi cambiamenti nella pratica della medicina, che non si riferisce solo all'Alzheimer. La medicina moderna ha prodotto nuovi strumenti diagnostici, dagli scanner ai test genetici, che possono trovare le malattie o predirne il rischio decenni prima che la gente ne noti qualche sintomo. Allo stesso tempo, per molte di queste malattie non esistono trattamenti efficaci. Aiuta a sapere che sono suscettibili di contrarre una malattia se non c'è niente che si può fare?
"Questo è il prezzo da pagare" per le nuove conoscenze, ha detto il dottor Jonathan D. Moreno, professore di etica medica e di storia e sociologia della scienza all'Università di Pennsylvania. "Penso che stiamo per attraversare un periodo davvero difficile", ha aggiunto. "Abbiamo così tante informazioni ora, e come cultura dobbiamo cercare di imparare quali di queste non vogliamo avere."
Alcuni medici, come il Dr. John C. Morris della Washington University di St. Louis, dichiara che non intende offrire nuovi test diagnostici ai pazienti per l'Alzheimer - come la risonanza magnetica e i prelievi spinali -perché non è ancora chiaro come interpretarli. Egli li usa in studi di ricerca, ma non dice ai soggetti i risultati. "Non sappiamo con certezza che cosa significano questi risultati," ha detto il Dott. Morris. "Se si trova amiloide nel cervello, non sappiamo per certo che si svilupperà la demenza, e non abbiamo nulla che possiamo fare a riguardo".
Ma molte persone vogliono sapere e dicono che sono comunque in grado di gestire l'incertezza.
Tale questione si trova davanti ai ricercatori di un ampio studio federale sui primi segni dell'Alzheimer. Questi, tra i quali il dottor Morris, hanno testato e seguito centinaia di persone tra i 55 e i 90 anni, alcune con memoria normale, alcune con problemi di memoria e alcune con demenza. Finora, solo gli investigatori conoscono i risultati. Ora, la domanda è se tali risultati devono essere comunicati a coloro che li vogliono sapere. "Stiamo affrontando questo dilemma", ha detto il Dott. Richard J. Hodes, direttore del National Institute on Aging. "I bioetici stanno parlando con gli scienziati e con il pubblico sulla cosa giusta da fare".
Livelli di rischio, ma non i risultati
Il Dr. Rafii ha imparato a conoscere i nuovi test e come usarli, perché è un ricercatore in quel grande studio federale. Ma molti di coloro che si rivolgono alla clinica dei disturbi della memoria presso la University of California, San Diego, dove il dottor Rafii opera, non fanno parte di tale studio, l'Alzheimer's Disease Neuroimaging Initiative, e vogliono semplicemente sapere cosa non va nel loro cervello.
Così il dottor Rafii esegue a volte i test diagnostici dello studio: prelievi spinali e risonanza magnetica per scoprire il rimpicciolimento di importanti aree del cervello; la PET per cercare i segni rivelatori dell'Alzheimer. Lui lo chiama l'"ADNI nel mondo reale", riferendosi alla sigla dello studio. Anche altri eseguono tali test, anche se i medici si differenziano per quanto andranno oltre.
Il Dr. Mony J. de Leon della New York University, per esempio, prende una via di mezzo. Studia le persone a maggior rischio di Alzheimer o altre demenze, in particolare quelle le cui madri avevano Alzheimer perchè ha scoperto che questo tipo di familiarità rende più probabile la malattia.
Molti di coloro che vengono alla sua clinica non hanno problemi di memoria, ma sono preoccupati. Così il dottor de Leon li iscrive in uno studio e esegue su di loro periodicamente una serie di test - quelli che sondano la loro memoria, e quelli come i prelievi spinali e le scansioni del cervello che cercano i segni dell'Alzheimer. Ma lui comunica alle persone solo una sorta di valutazione generale, dicendo loro che sono ad rischio maggiore, minore o in un qualche punto mediano. "Noi non riveliamo loro i risultati," ha detto il Dott. de Leon. Alcuni sono soddisfatti.
NewYorkTimes, 17 dicembre 2010