Fragili. E «trasparenti» per la Sanità. Li chiamano i pazienti di cristallo: fragili e da trattare con cura estrema.
Ma purtroppo non succede. Perché, mentre i malati di Alzheimer, anche in Italia, continuano ad aumentare in misura esponenziale, i servizi pubblici restano indietro.
E sono ancora le famiglie a doversi accollare l' assistenza.
La seconda indagine pubblicata dal Censis e dall'Associazione italiana malati di Alzheimer (Aima), in occasione della XIV Giornata mondiale che si celebrerà venerdì 21 settembre, fotografa una realtà con molte ombre e poche luci. I malati sono circa 520 mila e si stima che i nuovi casi siano circa 80 mila all' anno.
«Se consideriamo l' attuale andamento demografico e il conseguente invecchiamento della popolazione, - spiega Concetta Maria Vaccaro, responsabile Welfare della Fondazione Censis - possiamo prevedere che nel 2020 i nuovi casi di demenza saliranno a 213 mila l' anno, di cui, 113 mila attribuibili all' Alzheimer».
Per il 2030, si calcola che le persone coinvolte dalla malattia saranno due milioni, compresi i familiari. Di fronte a quella che si presenta come una vera e propria emergenza sanitaria «le istituzioni sono assenti». Non è solo la denuncia corale di Gabriella Salvini Porro e di Patrizia Spadin, presidenti rispettivamente della Federazione Alzheimer Italia e dell' Aima, le due maggiori associazioni non profit a livello nazionale.
La conferma arriva anche dall' Istituto superiore di sanità e riguarda le Unità di valutazione Alzheimer (Uva), spina dorsale della rete di assistenza disegnata dal ministero della Salute nel 1999.
«Prima dell' avvento dei farmaci che oggi vengono impiegati nel trattamento dei malati di Alzheimer, avevamo solo 50 strutture specialistiche - premette Nicola Vanacore, del Centro nazionale di epidemiologia dell' Istituto -. Otto anni fa, con il progetto Cronos, il ministero ha istituito le Uva, demandando alle Regioni la loro realizzazione».
Sulla carta, le Uva sono 500. «Da un questionario telefonico con i responsabili delle Unità - dice Vanacore - sono però emerse delle aree grigie: una Unità su quattro resta aperta al massimo sei ore alla settimana. Il 20 per cento funziona un solo giorno alla settimana, senza differenze tra Nord, Centro e Sud Italia. Ciò significa che gli amministratori locali dovrebbero rafforzare queste strutture, ancora molto deboli».
Le Unità di valutazione avrebbero dovuto funzionare da raccordo e da snodo tra malati, famiglie, Asl, medici di base e ospedali. «Spesso invece sono solo etichette appiccicate a una porta e servono solo a prescrivere i farmaci», lamentano le associazioni. Perfino rintracciarle diventa un percorso a ostacoli. La Federazione Alzheimer ha impiegato un anno per la mappatura delle strutture nella sola Lombardia.
«Non esiste un elenco ufficiale delle Unità - ammette Vanacore -. In più della metà delle Regioni abbiamo avuto difficoltà a trovarle anche noi. Per questo abbiamo chiesto espressamente al ministero della Salute che l' elenco fosse messo su Internet». Dal sito del ministero, non risulta. Vuota anche la pagina web del progetto Cronos.
Poche le isole felici, nel panorama dell' assistenza sociosanitaria integrata. «Ci sono due o tre Italie da mettere insieme - riflette Antonio Guaita, direttore dell' Istituto geriatrico Golgi di Abbiategrasso, Milano -. Il sistema, nel suo complesso, è tutto o nulla».
Così il ricovero fa meno paura
A Strasburgo, 27 parlamentari di 16 Paesi lanciano l' Alleanza europea per l' Alzheimer. Chiedono alla Commissione europea e al Consiglio dei ministri d' Europa una risoluzione che dia priorità all' Alzheimer nella politica sanitaria europea. Un segnale importante, a sostegno dei malati e delle famiglie. Più in concreto, all'ospedale Niguarda di Milano si sperimenta l'«angelo custode» per i malati di Alzheimer che arrivano in pronto soccorso.
«Facciamo il caso di un paziente mandato dal suo medico per una polmonite - spiega Roberto Sterzi, direttore di neurologia a Niguarda -. Spesso per la demenza, non sa rispondere alle domande dei medici, si agita per la confusione che c' è, ma anche perché non ha vicino i parenti».
Risultato: i medici lo sedano, poi gli curano la polmonite. Quando ritorna a casa, però, la sua situazione mentale spesso è sensibilmente peggiorata. Per questo, assieme ad Aima e medici di famiglia, è stato stilato un protocollo. In pronto soccorso, il paziente sarà preso in custodia da una persona, con una formazione specifica.
Articolo di Ruggiero Corcella, Corriere della Sera, 16 settembre 2007, Archivio storico.