Abbiamo scelto di partecipare a questo percorso formativo in quanto incuriosite dalla trasposizione del metodo montessoriano al campo applicativo della demenza; il titolo del corso, “Metodo Montessori e demenze”, ha sollevato in noi la domanda: “Come può un modello teorico nato per un contesto educativo divenire anche un modello di cura applicabile nell’ambito clinico delle demenze?”. Consapevoli dell’importanza dei modelli teorici di riferimento, che guidano la pianificazione e la realizzazione di un certo tipo di assistenza alla salute, abbiamo ritenuto utile cercare di trovare una risposta alla suddetta domanda.
Innanzitutto, chi è stata Maria Montessori? Maria Montessori è stata un’educatrice, pedagogista, filosofa, medico e scienziata italiana, nota internazionalmente per il metodo educativo che prende il suo nome, adottato in migliaia di scuole dell’infanzia, primarie e secondarie in tutto il mondo. Secondo il suo modello, la disciplina deriva dal “lavoro libero”, nasce solo quando nel bambino emerge l’interesse autentico, ossia quando egli “sceglie” il lavoro assecondando il proprio istinto, capace di procurare uno stato di raccoglimento assoluto. In altri termini, solo la strutturazione di un ambiente organizzato e adattato “a misura di bambino” può permettere la libera scelta, accrescere l’autonomia e favorire il coinvolgimento attivo degli infanti.
I valori e principi etici che guidano il pensiero di Maria Montessori sull’educazione dei bambini possono allo stesso modo orientare la modalità di vedere la persona con demenza e di sostenerla nel nostro ruolo di caregiving, ossia:
- il bambino è una persona, dunque un essere unico e speciale (parimenti ogni persona malata di demenza è un mondo a sé: dobbiamo riconoscerne le origini, la storia, gli interessi, le capacità peculiari, le paure, le preferenze, i valori, i ruoli che hanno avuto nella vita);
- l’ambiente va adattato in tutte le sue componenti in modo da andare incontro alle abilità fisiche e cognitive dei bambini (parimenti l’adattamento ambientale è fondamentale per contenere e/o prevenire determinati disturbi comportamentali associati alla malattia, per garantire la sicurezza della persona, per rispondere in maniera più efficacie ai suoi bisogni, per compensare i deficit cognitivi);
- la modalità di apprendimento migliore per il bambino è quella dell’«imparare facendo» attraverso il canale dell’imitazione (parimenti i sistemi di apprendimento procedurale sono disponibili nella persona con demenza, addirittura anche nelle fasi avanzate di malattia; ad oggi sappiamo come i neuroni specchio, responsabili dell’apprendimento attraverso il meccanismo dell’imitazione, permettano anche al malato di demenza di eseguire una procedura in seguito alla dimostrazione fisica di ciò che le chiediamo di fare);
- i bambini devono sentire di appartenere ad una comunità, al cui interno svolgere ruoli significativi “muovendosi” nello spazio e nelle relazioni nel modo più autonomo possibile (parimenti i comportamenti problematici delle persone con demenza possono venire ampiamente ridotti fornendo loro uno scopo per svegliarsi e uscire dal letto, dando loro piccole ma significative opportunità di scelta nel corso della giornata in modo da sostenere il più a lungo possibile la capacità di essere e sentirsi autonomi).
I concetti strutturanti pratici della filosofia montessoriana, applicabili anche alle persone con demenza, possono essere così riassunti:
- conosci la mia biografia e la mia autobiografia;
- aiutami a fare da solo e più che dirmi “come si fa” fammi vedere “come si fa”;
- lasciami ogni tanto in stand-by (ciò mi permette di riflettere sul mio apprendimento);
- tieni conto che la mia velocità di apprendimento è ridotta, quindi dammi il tempo di assorbire le informazioni;
- proponimi ambienti e materiali che io possa riconoscere, piacevoli per udito, vista, olfatto, tatto e gusto in modo da suscitare il mio interesse (l’interesse genera la concentrazione che a sua volta genera l’apprendimento);
- per apprendere impostami il lavoro: dal più semplice al più complesso, dal concreto all’astratto;
- proponimi attività leggermente più complesse rispetto a quello che sono in grado di fare (lavori troppo facili --> noia; lavori troppo difficili --> frustrazione);
- dai un senso evolutivo all’attività che mi proponi, crea una ritualità (ritualità --> automatismo, autonomia);
- ripartisci l’attività in diverse sequenze e procedi per tappe.
La dott.ssa Montessori considera la cura dell’ambiente di fondamentale importanza, infatti le classi Montessori furono il primo ambiente progettato specificatamente per i bambini; allo stesso modo, è ormai risaputo quanto lo spazio fisico e relazionale in cui è immersa la persona con demenza influisca sull’evoluzione e sulla manifestazione della sua malattia.
Secondo il Metodo Montessori l’ambiente dev’essere percepito come un contesto accogliente e familiare/domestico con tavoli, tovaglie, sedie e scaffalature su cui sono esposti a vista (per favorire la libertà di scelta) e in unica copia (per accrescerne il valore) i materiali utili per svolgere le diverse attività.
Nel campo delle demenza, il compito più difficile dell’operatore è saper continuamente adattare e modellare l’ambiente seguendo il percorso di evoluzione o involuzione di ciascuna persona e del gruppo nel suo insieme. Ciascuna attività non è da intendersi statica, ma con un ampio potenziale di cambiamento: così i lavori nello spazio vanno aumentando o diminuendo, complicandosi o semplificandosi o semplicemente variano per mantenere alto l’interesse. L’aspetto più importante è considerare sempre la persona come unica, quindi individualizzare il più possibile le attività.
La partecipazione delle persone non è necessariamente attiva, a volte è solo emotiva, ovvero sono attenti e coinvolti rispetto a ciò che accade nel gruppo di lavoro, mantenendo una sorta di “distanza di sicurezza”. L’ambiente montessoriano prevede cinque tipologie di spazi in cui poter “allenare” diverse competenze:
- sensoriale;
- della vita pratica;
- linguaggio;
- cognitiva;
- della cura di sé.
I materiali hanno le seguenti caratteristiche:
- sono disposti in scaffali a vista;
- elastici (si plasmano, possono servire per più scopi);
- in unica copia (per l’educazione all’attesa);
- ordinati;
- attraenti;
- auto – correttivi.
Creare un “laboratorio montessoriano” all’interno di uno spazio più ampio (ospedale - casa di riposo – centro diurno - progetto sollievo) può essere utile, oltre come stimolazione in generale, anche per “far lavorare” la persona su quei pezzi di autonomia che le mancano
Es.: travasi col cucchiaio --> per tornare a mangiare in autonomia;
Es: attività delle allacciature --> per preservare la capacità di vestirmi in autonomia.
Il principio di fondo è dunque il seguente: se nella vita reale mi dimostri un’incompetenza, nel laboratorio ti faccio trovare un‘attività utile per allenarti a colmare quella carenza in modo da divenire lentamente più competente nella quotidianità. Diventa, tuttavia, fondamentale sensibilizzare la famiglia/l'equipe di cura affinché ci sia il più possibile una coerenza terapeutica tra “ciò che viene fatto in laboratorio” e “ciò che viene permesso alla persona di fare a casa o in struttura” (es: se nell’ambiente protetto lavoro sul potenziamento della manualità fine, poi non devo sostituirmi alla persona nell’atto dell’alimentarsi).
Infine, secondo il metodo montessoriano, è importante “educare nella relazione” seguendo questi punti:
- far emergere la persona dall’anonimato, cercando di motivare al cambiamento la persona modificando la sua routine;
- lavorare con la fragilità avendo la RESPONSABILITÀ di avviare una relazione dialogica;
- avere il CONTROLLO EMOTIVO DI SE’;
- essere dotato di EQUILIBRIO, che pone nella condizione di accogliere l’instabilità altrui;
- riconoscere gli ospiti/le persone come PADRONI del proprio CORPO, della propria ABITAZIONE, della propria VITA, favorendo l’importanza di far fare delle scelte;
- essere facilitatore, registra, curatore dell’ambiente: l’importante è creare la condizione affinché le cose succedano, non farle fare (lavorare di progettazione);
- essere consapevoli che dall’OSSERVAZIONE parte l’AGIRE EDUCATIVO, così come l’agire organizzativo;
- il servizio che il facilitatore pensa deve rispondere ai bisogni di chi lo abita, non il contrario;
- l’adattamento deve essere dell’ambiente al paziente e non viceversa;
- diminuire il proprio operato affinché l’ospite cresca: il facilitatore decide come strutturare un’attività o un’azione e lascia l’ospite libero di agire.
Rispetto alla nostra domanda iniziale, “Come può un modello teorico nato per un contesto educativo divenire anche un modello di cura applicabile nell’ambito clinico delle demenze?”, abbiamo provato a dare una risposta descrivendo nel presente articolo quelli che possono essere i principali punti di contatto tra due ambiti applicativi così diversi (ossia, quello prettamente educativo e quello clinico).
Continueremo ad approfondire l’argomento, cercando di comprendere meglio come usare alcuni dei suddetti concetti per condividere suggerimenti utili che permettano alla persona con demenza di stare il meglio possibile nella sua quotidianità.
Fonte: Dr.ssa Elisa Civiero (psicoterapeuta) e Dr.ssa Valentina Tessarolo (psicoterapeuta)
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