Dei ricercatori hanno identificato un farmaco che punta il primo passo nella reazione a catena tossica che porta alla morte delle cellule cerebrali, suggerendo la possibilità di trovare trattamenti per proteggere dall'Alzheimer, proprio come le statine riescono a ridurre il rischio di sviluppare la malattia del cuore.
Il farmaco, che è un trattamento anti-cancro approvato, ha dimostrato di ritardare l'insorgenza dell'Alzheimer, sia in provetta che nei nematodi. Si era ipotizzato in precedenza che in prospettiva potrebbero essere usati farmaci di tipo statine (che sono sicuri e possono essere presi tranquillamente da quelli che hanno il rischio di sviluppare la malattia), ma questa è la prima volta che è segnalata una potenziale 'neurostatina'.
Quando i ricercatori davano il farmaco ai vermi nematodi, geneticamente programmati per sviluppare l'Alzheimer, dopo che i sintomi erano già apparsi, non c'era alcun effetto. Ma quando il farmaco è stato somministrato ai vermi prima che i sintomi fossero evidenti, non è apparsa alcuna evidenza della condizione, aumentando la possibilità che questo farmaco, o altre molecole simili, possano essere usati per ridurre il rischio di sviluppare l'Alzheimer. I risultati sono riferiti sulla rivista Science Advances.
Analizzando il modo in cui il farmaco bexarotene, funziona a livello molecolare, il team internazionale di ricercatori delle Università di Cambridge, di Lund e di Groningen, ha scoperto che esso blocca la prima fase della cascata molecolare che porta alla morte delle cellule cerebrali. Questo passaggio, chiamato «nucleazione primaria», avviene quando le proteine presenti naturalmente nel corpo si piegano nella forma sbagliata e si aggregano ad altre proteine, formando alla fine strutture sottili simili a filamenti chiamate «fibrille amiloidi». Questo processo crea anche ammassi più piccoli chiamati oligomeri, che sono altamente tossici per le cellule nervose e si pensa che siano responsabili dei danni cerebrali dell'Alzheimer.
"Il corpo ha varie difese naturali per proteggersi dalla neurodegenerazione, ma con l'avanzare dell'età, queste difese si deteriorano progressivamente e possono essere sopraffatte", ha detto il professor Michele Vendruscolo (nella foto) del Dipartimento di Chimica, autore senior della ricerca a Cambridge. "Chiarendo come funzionano queste difese naturali, potremmo essere in grado di sostenerle, sviluppando farmaci che si comportano in modo simile".
Negli ultimi vent'anni i ricercatori hanno cercato di sviluppare trattamenti per l'Alzheimer tentando di impedire l'aggregazione e la proliferazione degli oligomeri. Tuttavia, questi tentativi sono tutti falliti, in parte perché non c'era una precisa conoscenza dei meccanismi di sviluppo della malattia: Vendruscolo e i suoi colleghi hanno lavorato per capire esattamente questo.
Con un test sviluppato dal co-autore professor Tuomas Knowles del Dipartimento di Chimica, e dalla Prof.ssa Sara Linse dell'Università di Lund, i ricercatori sono riusciti a determinare ciò che accade durante ogni fase dello sviluppo della malattia, e anche quello che potrebbe succedere se una di queste fasi fosse spenta in qualche modo.
"Per bloccare l'aggregazione proteica, abbiamo bisogno di capire in modo accurato ciò che accade esattamente e quando", ha detto Vendruscolo. "Il test che abbiamo sviluppato non solo misura l'andamento del processo nel suo insieme, ma anche quello degli specifici sottoprocessi che lo compongono, così da permetterci di ridurre la tossicità degli aggregati piuttosto che impedire semplicemente che si formino".
Johnny Habchi, il primo autore della ricerca, e i colleghi, hanno assemblato una libreria di oltre 10.000 piccole molecole che interagiscono in qualche modo con l'amiloide-beta, una molecola che ha un ruolo fondamentale nell'Alzheimer. Con il test sviluppato da Knowles e Linse, i ricercatori hanno prima analizzato le molecole che erano farmaci già approvati per altri scopi, o farmaci sviluppati per l'Alzheimer o per altre condizioni simili che avevano fallito gli studi clinici.
La prima molecola di successo che hanno identificato è stato il bexarotene, che è approvato dalla US Food and Drug Administration per il trattamento del linfoma. "Uno dei passi reali in avanti è stato prendere una molecola che secondo noi avrebbe potuto essere un farmaco potenziale e capire esattamente cosa fa. In questo caso, ciò che fa è sopprimere la nucleazione primaria, che è l'obiettivo di qualsiasi molecola di tipo neurostatina", ha detto Vendruscolo. "Se si interrompe il processo prima che inizi l'aggregazione, non avviene la proliferazione".
Uno dei progressi fondamentali del lavoro attuale è che attraverso la comprensione dei meccanismi dello sviluppo dell'Alzheimer nel cervello, i ricercatori sono riusciti a puntare il bexarotene sul punto giusto del processo.
"Anche se abbiamo una molecola efficace, se si punta la fase sbagliata del processo, si possono effettivamente peggiorare le cose inducendo l'aggregazione di proteine tossiche in un altro punto", ha detto il co-autore professor Chris Dobson dell'Università di Cambridge. "E' come il controllo del traffico: se si chiude una strada per cercare di ridurre gli ingorghi, mettendo il blocco nel posto sbagliato si può in realtà peggiorare la situazione. Forse non tutte le molecole degli esperimenti farmacologici precedenti erano inefficaci, ma può darsi che in alcuni casi fossero somministrate nei tempi sbagliati".
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Il corpo ha una serie di difese naturali progettate per mantenere sotto controllo le proteine. Ma quando si invecchia, questi processi possono compromettersi e farsi sopraffare, e alcune proteine possono scivolare attraverso la rete di sicurezza, con conseguente insorgenza dell'Alzheimer e di altre condizioni provocate dalla piegatura errata delle proteine. Anche se le neurostatine non sono una cura per l'Alzheimer, i ricercatori dicono che potrebbero ridurre il rischio, agendo come una copia di riserva per le difese naturali dell'organismo contro il misfolding [errata piegatura] delle proteine.
"Non si danno le statine a una persona che ha appena avuto un attacco di cuore, e dubitiamo che sarebbe utile dare una neurostatina ad un paziente di Alzheimer che non riconosce un familiare", ha detto Dobson. "Ma se riduce il rischio della fase iniziale del processo, può in prospettiva essere un efficace trattamento preventivo".
Ma c'è speranza per quelli già colpiti dalla malattia? I metodi che hanno portato all'attuale progresso hanno permesso ai ricercatori di identificare i composti che invece di prevenire la malattia, potrebbero rallentare la sua progressione, anche quando i sintomi sono diventati evidenti. "Il prossimo obiettivo della nostra ricerca è anche quello di essere in grado di curare le vittime di questa terribile malattia", ha detto Vendruscolo.
Fonte: University of Cambridge (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.
Riferimenti: J. Habchi, P. Arosio, M. Perni, A. R. Costa, M. Yagi-Utsumi, P. Joshi, S. Chia, S. I. A. Cohen, M. B. D. Muller, S. Linse, E. A. A. Nollen, C. M. Dobson, T. P. J. Knowles, M. Vendruscolo. An anticancer drug suppresses the primary nucleation reaction that initiates the production of the toxic A 42 aggregates linked with Alzheimers disease. Science Advances, 2016; 2 (2): e1501244 DOI: 10.1126/sciadv.1501244
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