All'inizio era sottile: dimenticare per quale strada girare, ritornare a una storia detta spesso, il compleanno della sua prima nipote.
Tre anni fa, mio padre ha avuto la diagnosi di demenza. Morbo di Alzheimer. Ma erano solo parole allora; un parere medico, misurato, in un ambiente clinico controllato. Non è stato davvero uno shock, ma avremmo tutti notato i cambiamenti.
Ricordo come il medico ci ha descritto il cervello: come un hotel con molte camere, ognuna con funzioni connesse. In una stanza, c'è la capacità di risolvere problemi. Accanto quella della nostra coordinazione fisica. In un'altra - sicuramente la più disordinata - i nostri ricordi.
"Con il progredire della demenza", ha spiegato, "la luce si spegne una stanza dopo l'altra".
La diagnosi ha colpito duramente mio padre. Aveva sempre gustato le storie del suo passato, la sua giovinezza, e anche la sua infanzia; era un oratore vivace con molte cose da dire. All'inizio aveva studiato, senza successo, per essere sacerdote in Italia. Dopo l'arrivo in Australia, è stato macchinista di treno, contadino, e poi - più a lungo - oste di paese.
Nel frattempo ha trionfato contro una compagnia di assicurazioni avara, in un caso giudiziario preveggente di The Castle. E' stato forse il primo - e forse unico - a rappresentare se stesso presso l'Alta Corte, e a vincere. In qualche modo, lui e la mamma (soprattutto la mamma) hanno allevato quattro ragazzi sani, in un paese remoto.
Ma ora, a tre anni da quella prima diagnosi, tutto questo è perso in lui. Fa fatica a ricordare i nostri nomi. Una volta loquace, si è ridotto ad una confusione tra inglese e italiano. Non ha alcun senso delle strade, di solito non è consapevole di ciò che lo circonda, e richiede una supervisione costante.
Mia madre si prende cura di lui. E' una battaglia persa, un onere inimmaginabile per la sua salute fisica ed emotiva. Lei guarda il marito, compagno, confidente con cui ha condiviso la sua vita, scomparire davanti ai suoi occhi.
Lo porto al diurno tre volte alla settimana. Gli piace l'uscita, la stimolazione, e la compagnia. Qui, a volte vedo un accenno dell'uomo che era, l'imprenditore emigrante coraggioso, socievole, divertente, e il terribile cascamorto. Balla con le donne, canta vecchie canzoni italiane, e gioca a bocce con gli studenti del servizio comunitario. E' bello vederlo felice, solo un guizzo di luce in quelle stanze buie.
Di recente, è stato ricoverato al St Vincent per un attacco di polmonite. Per chiunque, tale permanenza in ospedale è quanto meno sgradevole. Per mio padre, è confusione e pericolo. Non sa dove si trova, o perché è lì. E' altrettanto probabile che possa strappare una cannula dal suo braccio, sporcarsi, o perdersi andando alla toilette. Richiede una supervisione costante, faticosa, personale.
Una notte, dopo le ore di visita, un infermiere dice a mia madre: "E' una malattia terribile". Lei sospira stancamente: "Sì, odio vederlo in questo modo". "No", dice lui, "per la famiglia, voglio dire". L'infermiere stringe la spalla di mia mamma: "Fa male sempre di più ai propri cari".
E così ci consoliamo con i ricordi, abbracciando ciò che se n'è già andato. Ci aggrappiamo alle vecchie storie, abbellite. Temiamo, ma non lo diciamo, ciò che sta per arrivare.
Eppure, a volte mi immagino il cervello come l'ha descritto il medico, solo tre anni fa. E vedo mio padre - l'oste - girovagare per quell'hotel a tarda notte, visitando ogni camera. Si sofferma sulla porta, assapora la memoria per l'ultima volta, prima di spegnere la luce.
E noi, la sua famiglia, aspettiamo nell'ultima stanza. Ci sediamo sotto una luce tremolante e moribonda, e ricordiamo i vecchi tempi, dimenticati. Ma continuiamo ad ascoltare, sapendo che una notte sentiremo dei passi nel corridoio. E poi un bussare alla porta.
"Buona notte" (*), dirà, prima di lasciarci al buio.
Ma questo non è un necrologio. Mio padre è felice, sano e amato. Così non gli deve mai essere permesso di piangere per ciò che è perso, o per quello che viene ricordato.
Quello rimane a noi.
(*) in italiano nel testo originale
Fonte: Mark Brandi in The Guardian (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.
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