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La realtà dolorosa del matrimonio dopo l'Alzheimer

La realtà dolorosa del matrimonio dopo l'AlzheimerNeil e Barbara posano per una foto da giovani. (Foto per gentile concessione di Neil Goldstein)
E' tarda notte, quasi mattina presto. Barbara si sveglia e guarda dritto verso di me con occhi tristi, semiaperti. E' in preda al panico, terrorizzata, con un respiro affannoso che spaventa a morte tutti coloro che dormono accanto a lei.


"Io, io, io, non riesco, non riesco, non riesco", dice. Ha i capelli a coda di cavallo, quasi disfatta. Indossa una felpa nera con una ballerina stampata, residuo dei molti anni da ballerina.


"Fermati" le dico. "Stai sognando. Va tutto bene. Sei al sicuro. Sono le due del mattino". Ma questo non è un sogno.


Barbara si ristende, poi si rialza. Va al suo lato del letto, si rimbocca lenzuola e coperta. Viene dalla mio parte e anche qui si rimbocca lenzuola e coperta, come se io non ci fossi, disteso nel letto. Torna dalla suo parte e chiede se può stare con me.


Certo che può. È mia moglie, da 48 anni. Negli ultimi due anni, ha avuto l'Alzheimer, e sono il suo caregiver. Non mi piace la parola caregiver, però. Questa con cui dormo è mia moglie, non è un genitore con demenza.


Questa è la donna che amo da cinquanta anni, la ragazza che ho incontrato quando eravamo studenti del secondo anno alla James Monroe High School nel Bronx. Abbiamo fondato una scuola di danza insieme, abbiamo allevato una figlia insieme. Io sono suo marito.


Per anni, prima di dormire, Barbara si faceva il bagno nella nostra vasca idromassaggio e guardava per ore i balletti sul videoregistratore. Le piacevano soprattutto i balletti di Tchaikovsky, molti dei quali venivano ricreati nella nostra scuola di danza. Era così assorta a guardare i video, che spesso dovevo andare a tirarla fuori dalla vasca.


Dormendo ora accanto a questa donna spaventata, tormentata e rassegnata, non posso fare a meno di confrontare queste notti con tutte le notti e le mattine che ci siamo svegliati insieme, prima che fosse così, quando era una donna che potevo toccare al buio, non importa quello che era successo durante il giorno, la settimana, il mese, l'anno.


Ora sono il suo caregiver. L'Alzheimer è qui ogni giorno, ogni notte. La malattia non si può imbrogliare per un solo secondo. Sono responsabile al cento per cento della vita di Barbara, del suo benessere, della sua comodità, della sua protezione. Per proteggere Barbara, ho dovuto toglierle tanto. Le ho tolto l'insegnamento del balletto, il lavoro della sua vita. Le ho tolto la macchina, la guida, le sue responsabilità, il processo decisionale, la sua indipendenza.


Per il suo benessere e il mio, ho assunto due aiutanti in casa. "Non mi piacciono le persone quando vengono a casa mia e mi dicono cosa fare", dice Barbara, quando si lamenta con me delle aiutanti, Ninda e Sharon. "Non mi piace. E' casa mia. Non mi deve essere detto di fare un bagno e di cambiare i vestiti. Io so come pulire me stessa e cosa indossare. Vanno al piano di sotto e semplicemente buttano tutto in lavatrice, come se non fosse la mia casa. Non le conosco nemmeno. Come hanno potuto agire così? E' casa mia".


Le ho assunte un anno e mezzo fa e le pago di tasca mia. Lavorano tre giorni ciascuna, sette ore al giorno, 42 ore alla settimana totali. Le altre 126 ore della settimana sono su chiamata. E hanno anche le ferie e i giorni di riposo. Per fare l'assicurazione per l'Alzheimer di Barbara, ho dovuto dare in pegno i nostri beni. Poi, tra cinque anni, se dovrò mettere Barbara in una casa di cura che costa qualcosa come 15 mila dollari al mese, sarò rimborsato da Medicaid.


Se succede il peggio, e mia moglie deve andare in una casa di cura prima dei cinque anni richiesti, potrebbe costare tutto quello che abbiamo, lasciandoci con le tasche vuote. E' un sistema folle che non può aiutare una persona che sta perdendo la mente, non può impedire a una famiglia di andare in rovina per la sua cura.

* * *

"Pensavo che non tornassi a casa. Dov'eri? Ho chiamato lo studio e nessuno ha risposto", dice Barbara. Questo è il "benvenuto" che ricevo il secondo dopo che entro dalla porta di casa. Il corso di scrittura che sto seguendo finisce alle 17. Salgo su un treno affollato dell'ora di punta verso il Bronx. Poi alla stazione di Pelham Parkway, prendo un taxi per Westervelt Avenue e arrivo a casa alle 18:30.


Non sto mai in centro per girovagare, osservare la vita meravigliosa della città, o andare per negozi. Vado solo diretto a casa per alleviare Ninda o Sharon e ricevere il solito saluto: "Dove sei stato?". Sono passate sei ore da quando ho lasciato Barbara. Odio tornare a casa.


A questo punto, divento il caregiver fino alle 11 del giorno successivo. Devo nascondere il mio entusiasmo per il tempo passato nel corso e non posso condividere con lei ciò che sto scrivendo. Qualsiasi atto di godimento o di associazione alla vitalità, è considerato da Barbara come una separazione da lei e lei si risente per questo. Nella sua disperazione, possiamo essere di nuovo uguali solo se mi sminuisco anch'io. E mi sento sempre più separato da lei ogni giorno che passa, mentre diventano normali le bugie innocenti che le dico.


Eppure l'attrazione gravitazionale di una vita insieme è una forza potente. Barbara preferirebbe che io non uscissi mai di casa o, quando lo faccio, che la prenda con me. La paura opprimente è che la mia anima si incorpori nelle sinapsi malfunzionamenti di Barbara e che io possa perdere la mia voglia di vivere. L'Alzheimer non lascia prigionieri.


E' colpa mia se ha l'Alzheimer. "Mi hai portato dai medici e mi ha fatto subire test umilianti per dimostrare che sono pazza", dice. "Così mi puoi mettere in una casa di riposo e fare quello che vuoi". Barbara non gradisce quando scherzo o parlo con le sue aiutanti. "Stai solo cercando di divertirle", dice, "Vuoi essere un grande uomo, ma io sono a casa mia e mi stanno dicendo cosa fare. Io non sono una bambina. Tu mi hai fatto questo". Io dico: "Vuoi rimanere da sola, allora?". "No, non sto dicendo questo", dice. "Dovresti proteggermi, ma non lo fai. Non sono pazza".

* * *

"Sto morendo di fame, c'è niente per cena?", mi chiede. "Sì", rispondo. "Posso avere un paio di minuti? Sono appena arrivato a casa". "Certo, che puoi, Neil. Prenditi il ​​tuo tempo". Mi siedo sul divano e dopo cinque minuti Barbara mi chiede quando mangiamo e se si cena. Io dico, "Vado di sotto, faccio una doccia, poi vengo a preparare la cena". "Presto, sto morendo di fame", dice.


Corro. Sono tornato di sopra nella cucina che ho progettato non più tardi di due anni fa. E' il mio spazio e il posto dove lascio che la mia immaginazione faccia apparire una cena. Io di solito tengo Barbara, o chiunque altro, fuori dalla cucina, in modo da potermi associare liberamente al cibo. E' l'unico piacere che ho nella mia casa.


Barbara mi vede in cucina, entra e trova cose da fare. Si lava il bicchiere che prende sempre. Non mi piace averla in cucina. Barbara interrompe l'uscita delle mie endorfine mentre creo il pasto. Lei lo sa. Le dico educatamente di uscire o con altre parole. Se ne va, ma poco dopo, torna nella mia cucina. "Posso preparare la tavola?" chiede. "Barbara, sto solo ora iniziando a pensare al menu. Non manca poco alla cena", le dico.


Non ha senso arrabbiarsi. Lei non ricorda di essere stata in cucina pochi minuti fa. "Devo usare i piatti grandi e abbiamo bisogno di coltelli affilati?" chiede. "Te lo farò sapere presto, Barbara", dico. Se prepara ora, si siederà a tavola fino a quando la cena sarà pronta e mi chiederà più volte quando sarà servito il cibo - per una buona ora.


L'ho tenuta a bada per il momento. Barbara si siede sul divano con la testa di lato, appoggiata su un cuscino. I suoi piedi sono sul divano. Si copre con una coperta leggera. Stiamo ascoltando Pandora, Etta James che canta "A Sunday Kind of Love" (un tipo di amore domenicale). Conosco questa canzone sin da adolescente. Al 92nd Street Y, alla fine degli anni '50, io e Barbara ballavamo il lento con questo brano. Era uno dei nostri preferiti, cantato dagli Harptones.


Lo canto anch'io mentre preparo un cestello di agnello con curcuma scottato sul fuoco e poi grigliato in forno quasi al sangue. Ho tagliato un cetriolo con un pelapatate, super sottile, aggiungo succo dolce di sottaceti e finocchio. "Spero di scoprire un certo tipo di amante che mi indichi la strada", canta Etta.


Cucino in umido delle piccole patate nel brodo di pollo e burro. Affetto un pompelmo, tolgo tutta la pelle e la polpa, lasciando solo la carne del pompelmo. Aggiungo miele, cannella e coriandolo fresco. Barbara prepara il tavolo. "Devo mettere i piatti grandi?" chiede di nuovo.


La cena va bene. A entrambi piace il pasto con un Malbec. Barbara mi chiede: "Con chi stai parlando?". Senza accorgermi, sto gesticolando con la mano destra. Lo faccio spesso a tavola. A volte, dico a Barbara che sto vivendo in un universo parallelo, proprio mentre sono a cena con una tavolata di persone.


Verso le 20:30 è pronta per andare a letto. Barbara mi implora di scendere di sotto e andare a letto con lei. Io di solito lotto con lei per questo. Non sono ancora pronto a chiamarla notte. Voglio rimanere alzato e guardare un film, lasciare che la mia immaginazione corra nel cervello, annotare una rivelazione che può arrivare. Questa disputa non finisce mai bene. Barbara si agita e io sarò immerso in un pantano di suppliche, ostinazione, rabbia, fissazione e violenza.


Barbara prende i capelli e si mette un elastico attorno ad essi per fare una coda di cavallo. Poi se lo toglie, afferra i capelli e mette l'elastico attorno ad essi di nuovo. Poi, ancora una volta, toglie i capelli dall'elastico e li rimette dentro. Io non le chiedo più di smettere perché alla fine fermerà da sola questa fissazione.


Anche se mi dispiace cedere, ho imparato ad andare a letto con lei. Semplicemente leggo o scrivo a letto. Do a Barbara la sua pillola per la notte che serve a calmarla e aiutarla a dormire. Non posso alzarmi dal letto e andare di sopra per un poco di tempo per me. Se si sveglia e non sono a letto con lei, si fa prendere dal panico, anche se viene di sopra e mi trova lì. Mi ci vuole un po' per rassicurarla che non l'ho lasciata.


Quando chiedo allo psichiatra, al neurologo, al terapeuta, "Che cosa succederà in seguito a Barbara?", la risposta collettiva è: "Barbara deve essere gestita". Ho imparato che questa risposta è concepita più per me che per Barbara, per farmi credere che io sono in carica e ho il controllo: per gestire la mia convinzione che posso prendermi cura di Barbara, dal momento che non può prendersi cura di se stessa; per riuscire a rimanere una persona intera, cosciente, vitale, viva, senza effetti collaterali; per gestire lo sguardo sul suo volto quando arriverà il giorno di metterla in una casa di cura, e gestire il senso di colpa.


Potrò mai più sperimentare i piaceri semplici del tempo fuori dai rigori della vita, un giorno di riposo, una vacanza? Avrò un amore da possedere e tenere, un "amore di tipo domenicale"?

 

 

 


Fonte: Neil Goldstein, originario del Bronx, laurea in Storia alla New York University, fondatore con la moglie Barbara del Dance Theatre Bronx nel 1976, di cui è tuttora il direttore esecutivo.

Pubblicato in Narrative.ly (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.

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