Evolutivamente parlando, siamo nati per fare bambini. Il nostro corpo, e il cervello, non si disfano prima della fine dell'età fertile. Allora, perché le nonne, che non si riproducono e che contribuiscono poco alla produzione alimentare, sono ancora in giro e con la mente sana? Un nuovo studio offre una spiegazione genetica intrigante.
Gli scienziati hanno proposto diverse spiegazioni al motivo per cui la nostra specie vive così a lungo e, così in salute. Un'idea è che le nonne aiutano ad educare i figli. Per esempio uno studio del 1998 aveva scoperto che un gruppo di cacciatori-raccoglitori Hadza in Tanzania aveva più bambini se le nonne aiutavano a nutrire i loro giovani nipoti appena svezzati.
I ricercatori hanno ipotizzato che questo tipo di cura tenesse libere di riprodursi le giovani madri, e assicurasse che i geni della nonna badante fossero trasmessi ai più giovani. Hanno chiamato la loro teoria «ipotesi nonna».
Ma le nonne hanno bisogno di avere tutte le loro facoltà mentali per dare una mano in questo modo, e il nuovo studio può spiegare come questo accade. Il medico-scienziato Ajit Varki e il biologo evoluzionista Pascal Gagneux della University of California di San Diego, sono arrivati ai risultati per caso.
La coppia stava studiando un gene che aiuta a controllare la risposta infiammatoria e immunitaria del corpo alle lesioni o infezioni. Studi precedenti avevano collegato due forme del gene (CD33) all'Alzheimer. Mentre una variante, o allele, del CD33 predispone una persona alla malattia, l'altra sembra proteggere contro di essa, impedendo la formazione di grumi di proteine nel cervello.
Per saperne di più sul lignaggio del gene, il team ha confrontato la prevalenza delle due versioni nei tessuti umani e negli scimpanzé, che, insieme con i bonobo, sono i nostri parenti più stretti tra gli animali vivi. Esseri umani e scimpanzé avevano livelli simili della versione dannosa del CD33, implicando che questa deve essere la più antica delle due varianti.
Tuttavia, quando i ricercatori hanno esaminato la variante protettiva, i suoi livelli erano quattro volte superiori negli esseri umani rispetto agli scimpanzé. Questo suggerisce che gli scimpanzé (che di solito muoiono verso l'età in cui termina la loro fertilità) hanno poco bisogno della variante protettiva. In effetti, gli scimpanzé non sembrano soffrire dello stesso tipo di declino cognitivo provocato dall'Alzheimer.
Gli scienziati hanno poi cercato la frequenza dell'allele protettivo nei campioni del «1000 Genomes Project», un database di varianti genetiche presenti nelle popolazioni di tutto il mondo. Hanno trovato l'allele protettivo in tutta una serie di etnie: africane, americane, asiatiche e europee.
Per vedere se lo stesso vale per altri geni ritenuti protettivi dal declino cognitivo, i ricercatori hanno ri-esaminato il «1000 Genomes Project» per trovare varianti di un gene chiamato APOE, che è implicato nell'Alzheimer ad insorgenza tardiva. Hanno cercato anche le varianti di altri geni coinvolti nell'ipertensione, nel diabete e nelle malattie cardiovascolari.
Come con il CD33, le varianti protettive sono presenti in tutte le etnie, segnalano i ricercatori on-line su PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences).
Hanno poi cercato tra i genomi pubblicati di scimpanzé, bonobo e gorilla, ma non hanno trovato prove delle varianti del gene nei primati. Ciò suggerisce che queste varianti si sono evolute quando gli esseri umani si sono inizialmente separati dagli antenati primati.
"Le nonne sono così importanti, abbiamo anche evoluto i geni per proteggere la loro mente", dice Varki.
Più di 5 milioni di americani oltre i 65 anni hanno l'Alzheimer. La variante protettiva del CD33 non è presente in ognuno di noi, ma saperne di più sul gene potrebbe portare a nuovi farmaci progettati per imitare i suoi effetti protettivi, dice Rudolph Tanzi, neurogenetista della Harvard Medical School di Boston, che non ha partecipato a questo studio.
"Penso che si dovrà fare molto più lavoro, ma è molto interessante vedere che sembra che stiamo selezionando un allele che ci protegge da una malattia che non colpisce prima della decade otto o nove", dice Tanzi, che ha identificato per primo il ruolo del CD33 nell'Alzheimer. "Questo documento rafforza per me, e dà grande risalto all'importanza del CD33 non solo come fattore dell'Alzheimer, ma come importante fattore evolutivo nella selezione naturale contro l'Alzheimer".
Per Kristen Hawkes, ecologista del comportamento della University of Utah di Salt Lake City, il cui campo di studi ha portato alla «ipotesi nonna» nel 1998, i risultati forniscono la prova genomica chiave che mancava nel settore. "Questi ragazzi hanno messo il dito su una firma particolare della selezione per la prestazione competente in età avanzata", dice. "E' eccitante e potente".
Fonte: Kelli Whitlock Burton in Science (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.
Riferimenti: Flavio Schwarz, Stevan A. Springer, Tasha K. Altheide, Nissi M. Varki, Pascal Gagneux and Ajit Varki. Human-specific derived alleles of CD33 and other genes protect against postreproductive cognitive decline. PNAS, 30 November 2015, doi: 10.1073/pnas.1517951112
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