Un farmaco contro il cancro, che si era dimostrato promettente contro l'Alzheimer nei topi e che ha iniziato i primi test clinici, ha dato risultati sconcertanti in un nuovo modello di topo di AD che imita meglio la genetica e la patologia della malattia umana rispetto a qualsiasi altro modello animale.
Il farmaco bexarotene ha dimostrato di ridurre i livelli della proteina neurotossica amiloide-beta nei topi sperimentali con Alzheimer di fase avanzata, ma di aumentarne i livelli durante le fasi iniziali della malattia.
La scoperta, fatta dai ricercatori del College of Medicine della University of Illinois di Chicago, è stata presentata il 16 luglio alla Conferenza Internazionale dell'Alzheimer's Association di Copenaghen da Mary Jo Ladu, che nel 2012 aveva sviluppato un topo transgenico che è ora considerato come il miglior modello animale della malattia umana. Quel topo sperimentale porta un gene umano che conferisce alle persone un rischio 15 volte maggiore di sviluppare l'AD, il fattore noto di rischio genetico più importante della malattia.
L'Alzheimer è la forma più comune di demenza, che colpisce più di cinque milioni di americani. La malattia è progressiva ed infine fatale. Una delle caratteristiche dell'AD è la comparsa di placche dense nel cervello composte da ciuffi di amiloide-beta. Ma una recente ricerca indica che della morte delle cellule nervose, che porta al declino cognitivo, sono responsabili le forme più piccole solubili di amiloide-beta, non le placche solide.
Gli esseri umani sono portatori di un gene che codifica una proteina nelle cellule chiamata apolipoproteina E, che aiuta ad eliminare l'amiloide-beta dal cervello, legandosi ad essa e scomponendola. I topi della Ladu sono portatori della variante più sfortunata degli esseri umani, chiamata APOE4, oppure della APOE3 che è neutrale per il rischio di AD.
"L'APOE4 è il più grande fattore di rischio genetico per l'Alzheimer", ha detto la Ladu, che è professore di anatomia e biologia cellulare alla UIC. "Il nostro lavoro precedente aveva dimostrato che, rispetto all'APOE3, l'apolipoproteina prodotta dal gene APOE4 non si lega bene all'amiloide-beta e quindi non elimina la neurotossina dal cervello".
I risultati di studi precedenti nei topi sull'effetto del bexarotene nell'AD erano stati contrastanti, e nessuno di questi studi è stato fatto nei topi portatori di un gene APOE umano e che sviluppano anche la patologia progressiva di tipo AD. La ricerca dell'UIC presentata a Copenhagen è la prima a farlo. La Ladu, lavorando con Leon Tai, professore assistente di ricerca di anatomia e biologia cellulare, ed con i loro collaboratori, ha dato del bexarotene per sette giorni a topi portatori di APOE4 o APOE3 nelle fasi iniziali, intermedie, o avanzate di AD. I ricercatori hanno poi misurato i livelli di amiloide-beta solubile nel cervello dei topi.
Nei topi con APOE4 umano e fase avanzata di AD, i ricercatori hanno visto una riduzione del 40 per cento dell'amiloide-beta solubile e un aumento del legame dell'apolipoproteina all'amiloide-beta. Ma nei topi APOE4 o APOE3 nelle fasi iniziali di AD, la quantità di amiloide-beta solubile è in realtà aumentata. Quando i ricercatori hanno dato ai topi APOE4 del bexarotene per un mese a partire dal momento di insorgenza della fase iniziale dell'AD, per vedere se il farmaco può prevenire la progressione della malattia, non c'è stato alcun effetto benefico.
Tai pensa che, per le persone portatrici del gene APOE4, il trattamento a breve termine con bexarotene nelle fasi avanzate della malattia può essere utile. Ma sono necessarie ulteriori ricerche, ha detto, per determinare la lunghezza e la tempistica del trattamento e, soprattutto, se il farmaco può dare benefici ai portatori di APOE3.
"Il bexarotene è anche estremamente tossico per il fegato", ha detto Tai. "Per la prevenzione, quando un farmaco viene somministrato prima che appaiano i sintomi dell'Alzheimer, e probabilmente su periodi di tempo più lunghi, il bexarotene probabilmente non è una terapia valida a causa di questa tossicità nota, a meno che il dosaggio non sia attentamente controllato e i pazienti siano strettamente monitorati".
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Alla ricerca hanno partecipato anche Kevin Koster e Nicole Collins, entrambi soci di ricerca nel College of Medicine dell'UIC; Greg Thatcher, professore di chimica farmaceutica e farmacognosia, Jia Luo, professore assistente di ricerca e lo studente laureato Sue Lee, tutti del College of Pharmacy della UIC. La ricerca è stata finanziata dal National Institute on Aging, e dal Center for Clinical and Translational Science dell'UIC.
Fonte: Sharon Parmet in University of Illinois at Chicago (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.
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