Dei ricercatori credono di aver capito come le mutazioni nel gene che causa la malattia di Huntington uccidono le cellule cerebrali, una scoperta che potrebbe aprire nuove possibilità per il trattamento di questo e altri disturbi fatali, come l'Alzheimer.
Gli scienziati hanno collegato il gene alla malattia ereditaria per la prima volta più di 20 anni fa. L'Huntington colpisce 5-7 persone su 100.000. I sintomi, che in genere iniziano nella mezza età, comprendono movimenti con spasmi involontari, coordinamento disturbato e problemi cognitivi come la demenza.
I farmaci non possono rallentare o arrestare il declino progressivo causato dalla malattia, che lascia i pazienti incapaci di camminare, parlare o mangiare.
L'autrice responsabile Hiroko Yano, PhD, della School of Medicine alla Washington University di St. Louis, ha scoperto nelle cellule del cervello di topi che la malattia compromette il trasferimento di proteine alle fabbriche che producono energia all’interno delle cellule cerebrali. Le fabbriche, chiamate mitocondri, hanno bisogno di queste proteine per eseguire il loro compito. Quando l'interruzione della linea di alimentazione disattiva i mitocondri, le cellule cerebrali muoiono.
“Abbiamo dimostrato che il problema potrebbe essere risolto inducendo le cellule a sovra-produrre le proteine che rendono possibile questo trasferimento”, ha detto la Yano, assistente professore di chirurgia neurologica, di neurologia e genetica. “Non sappiamo se questo può funzionare negli esseri umani, ma è eccitante avere una direzione nuova e solida su come questa condizione uccide le cellule del cervello”. I risultati sono disponibili online su Nature Neuroscience.
La malattia di Huntington è causata da un difetto nel gene huntingtina, che produce la proteina huntingtina. L’aspettativa di vita dopo l’esordio iniziale è di circa 20 anni. Gli scienziati sanno da tempo che la forma mutata della proteina huntingtina compromette i mitocondri e che questa interruzione uccide le cellule cerebrali. Ma avevano difficoltà a capire in particolare il modo in cui il gene danneggia i mitocondri.
Per il nuovo studio, la Yano e i collaboratori dell’Università di Pittsburgh hanno lavorato con topi geneticamente modificati per simulare le fasi iniziali della malattia. La Yano ed i suoi colleghi hanno trovato che la proteina huntingtina mutata si lega ad un gruppo di proteine chiamate TIM23. Questo complesso di proteine normalmente aiuta a trasferire ai mitocondri delle proteine essenziali ed altri rifornimenti. I ricercatori hanno scoperto che la proteina huntingtina mutata ostacola tale processo.
Il problema sembra essere specifico delle cellule cerebrali, all’inizio della malattia. Nello stesso punto nel decorso della malattia, gli scienziati non hanno trovato alcuna prova di danno nelle cellule epatiche, che producono anch'esse la proteina huntingtina mutata. I ricercatori hanno ipotizzato che le cellule cerebrali potrebbero fare in particolare affidamento sui loro mitocondri per alimentare la produzione e il riciclaggio dei segnali chimici che usano per trasmettere informazioni. Questa dipendenza potrebbe rendere le cellule vulnerabili alle perturbazioni dei mitocondri.
Altre condizioni neurodegenerative, tra cui l'Alzheimer e la sclerosi laterale amiotrofica (morbo di Lou Gehrig), sono stati collegati ai problemi con i mitocondri. Gli scienziati potrebbero essere in grado di ripartire da queste nuove scoperte per capire meglio questi disturbi.
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I finanziamenti dal National Institutes of Health, della Huntington’s Disease Society of America (Coalition for the Cure), della Brain & Behavior Research Foundation, e della DSF Charitable Foundation hanno permesso questa ricerca.
Fonte: Michael C. Purdy in Washington University in St. Louis (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.
Riferimenti: Hiroko Yano, Sergei V Baranov, Oxana V Baranova, Jinho Kim, Yanchun Pan, Svitlana Yablonska, Diane L Carlisle, Robert J Ferrante, Albert H Kim, Robert M Friedlander. Inhibition of mitochondrial protein import by mutant huntingtin. Nature Neuroscience, 2014; 17 (6): 822 DOI: 10.1038/nn.3721
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