Noi tutti affrontiamo lo stress in modo diverso.
Per molti di noi, lo stress è una grande motivazione, stimolando un rinnovato senso di vigore per risolvere i problemi della vita.
Ma per altri lo stress innesca la depressione. Diventiamo sopraffatti, paralizzati dalla disperazione e sconfitti.
Fino al 20% di noi lotta con la depressione in qualche momento della vita, ed i ricercatori stanno attivamente lavorando per capire come e perché si sviluppa questa malattia mentale debilitante.
Oggi, un team di ricercatori del Cold Spring Harbor Laboratory (CSHL), guidato dal Professore Associato Bo Li, rivela una informazione importante sulla base neuronale della depressione. Essi hanno identificato il gruppo di neuroni nel cervello che determina come un topo risponde allo stress: con la resilienza o con la sconfitta.
Da anni gli scienziati si affidano alle scansioni cerebrali per visualizzare i cambiamenti neuronali durante la depressione. Essi hanno scoperto che una regione del cervello nota come corteccia prefrontale mediale (mPFC) diventa iperattiva nelle persone depresse. Questa zona del cervello è ben nota per il suo ruolo nel controllo delle emozioni e dei comportamenti, collegando i nostri sentimenti con le nostre azioni. Ma le scansioni cerebrali non sono in grado di determinare se una maggiore attività nel mPFC provoca la depressione, o se è semplicemente un sottoprodotto di altri cambiamenti neuronali.
Il dottor Li si è proposto di identificare i cambiamenti neuronali che sono alla base della depressione. Nel lavoro pubblicato ieri su The Journal of Neuroscience, Li ed il suo team, che comprende Minghui Wang, PhD, e Zinaida Perova, PhD, ha usato un modello di topo con la depressione chiamata «impotenza appresa». Essi hanno combinato questo con un trucco genetico per contrassegnare neuroni specifici che rispondono allo stress. Hanno scoperto che i neuroni nel mPFC diventano altamente eccitati nei topi depressi. Questi stessi neuroni sono indeboliti nei topi che non sono scoraggiati dallo stress, quelli che gli scienziati chiamano topi resilienti.
Ma il team non poteva comunque essere sicuro che una maggiore segnalazione nel mPFC fosse effettivamente la causa della depressione. Per verificarlo essi hanno progettato i topi per simulare le condizioni neuronali che hanno trovato nei topi depressi. "Abbiamo potenziato artificialmente l'attività di questi neuroni usando un metodo potente chiamato genetica chimica", spiega Li. "I risultati sono stati notevoli: i topi una volta forti e resilienti sono diventati impotenti, con tutti i segni classici della depressione".
Può essere rilevante perché: |
La depressione è un fattore di rischio importante dell'Alzheimer. |
Questi risultati aiutano a spiegare come funziona un nuovo promettente trattamento per la depressione e può portare a miglioramenti nel trattamento. I medici hanno avuto un certo successo con la stimolazione cerebrale profonda (DBS), che sopprime l'attività dei neuroni in una parte molto specifica del cervello. "Speriamo che il nostro lavoro possa rendere la DBS ancora più mirata e potente", dice Li, "e stiamo lavorando per sviluppare ulteriori strategie basate sull'attività della mPFC per curare la depressione".
Successivamente, Li è impaziente di esplorare come diventano iperattivi i neuroni del mPFC nei topi inermi. "Questi neuroni attivi sono circondati da neuroni inibitori", dice Li. "Sono i neuroni inibitori che non lavorano? O i neuroni attivi sono in grado di bypassare i controlli in qualche modo? Queste sono alcune delle tante questioni aperte che stiamo portando avanti per capire come si sviluppa la depressione".
Questo lavoro è stato sostenuto da un Charles A. Dana Fellowship, dal National Institutes of Health, dalla Dana Foundation National Alliance for Research on Schizophrenia and Depression, e dal Louis Feil Trust.
Fonte: Cold Spring Harbor Laboratory (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.
Riferimenti: M. Wang, Z. Perova, B. R. Arenkiel, B. Li. Synaptic Modifications in the Medial Prefrontal Cortex in Susceptibility and Resilience to Stress. Journal of Neuroscience, 2014; 34 (22): 7485 DOI: 10.1523/JNEUROSCI.5294-13.2014
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