Mi compro le allucinazioni forgiate dall'Alzheimer. Ho ragione o torto?
Mia madre chiede, sembrando ansiosa: “Chi sono quelle persone alla finestra? Perché mi stanno fissando?". Guardo nel giardino, un annaffiatore ruota pigramente, le cime degli alberi ondeggiano leggermente nella brezza. Ma non vedo un'anima; non c'è nessuno lì. "Se ne andrà presto, mamma, non preoccuparti, andrà via presto".
Le allucinazioni fanno parte dell'Alzheimer di mia madre; invenzioni che colmano i vuoti creati da questa malattia. Un'amica, una neurologa, mi ha insegnato a farlo: "Non discutere, vedi anche tu quello che vede lei", mi ha esortato. Cerco di ricordarlo.
L'istinto di mio marito gli ha insegnato la stessa lezione. "Quei bambini ..." dice la mamma, allungando il collo come per vedere meglio mentre guarda nel prato, "Chi pensi che sia quell'uomo che è con loro?". Mio marito non perde un colpo. Alza lo sguardo nella direzione in cui lei punta, fingendo di concentrarsi su questo insieme fittizio di persone invisibili.
E poi dice, con convinzione, come se avesse riconosciuto il gentiluomo indicato da mia madre: "Oh, è solo il loro padre". La mamma si rilassa visibilmente, "Oh bene", dice. "Ero preoccupata". Non devi esserlo, dice delicatamente mio marito, "Penso che sia un bravo papà per trascorre del tempo con i suoi figli in quel modo, vero?". Si. "Sì", dice la mamma pensierosa, "deve esserlo". E con ciò, la sua visione si dissolve lentamente; non menziona più i bambini per quel giorno.
Il cardiologo Sandeep Jauhar descrive come ha appreso a mentire a suo padre quando ha dovuto farlo, per rendere l'esperienza di Alzheimer meno dolorosa per entrambi, per disinnescare l'angoscia. Capisco cosa intende. Ma non credo che stia mentendo. Penso che stia comprando la realtà evocata dalla demenza. Sta tenendo la mano di una persona mentre naviga in un mondo di crepuscolo.
Mio marito non legge nessuna delle cose che ho letto sulla malattia, non smentisce la scienza della demenza con la mia abitudine scientifica (una affilata da commenti inutili degli amici: "Speriamo che non sia genetica").
Come lo sapevi, gli chiedo più tardi: “Come facevi a far finta di vedere cosa vedeva lei? Come facevi a sapere cosa dire?". Scrolla le spalle: "È buon senso, no? E gentile: togli la paura e allo stesso tempo lo trasformi in una conversazione".
Penso che sia un bravo papà, per trascorrere del tempo con i suoi figli in quel modo, vero?
Quando chiedo a mia sorella perché abbiamo adottato questo tipo di finzione tipo 'I vestiti nuovi dell'imperatore', vedere ciò che chiaramente non c'è, dice: "Dobbiamo rendere certa la realtà della mamma, qualunque sia la sua realtà".
Mia madre non ha più i mezzi per riprendere il controllo della realtà della mia, della nostra, vita. Allora, sicuramente è nostro compito cercare di capire qualcosa della sua, approvare ciò che crede anche quando ciò che crede è una narrativa inverosimile e spaventosa. Soprattutto allora.
"Devo nascondermi?". "Nasconderti? Da cosa, mamma? Da chi?". "Dal nemico", risponde, con un tono che suggerisce che devo essere pazza se non lo conosco già. Potrei sghignazzare. Potrei ridere. Potrei dire "Non essere stupida, mamma; non ci sono nemici". Ma questo non farebbe che confonderla. Nel suo mondo, quei nemici sono reali. Si agiterebbe, "il nemico, il nemico", insisterebbe, con rabbia e frustrazione che lasciano il posto alla disperazione.
No. Non funzionerebbe: non posso cancellare magicamente ciò che per lei è certo. Ciò di cui ha bisogno è rassicurazione. E io gliela offro; posso alleviare un po' della sua paura. Quello posso fare.
No mamma. Non devi nasconderti. Ti terrò al sicuro. Ti prometto: ti terrò al sicuro da qualunque nemico ci sia. Sempre. "Oh. Va bene allora. È bello saperlo".
Fonte: Anthea Rowan in Psychology Today (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.
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